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 2012  maggio 16 Mercoledì calendario

STRAFALCIONI, ANCHE I VIP SBAGLIANO


Le cronache non sono state tenere con Renzo Bossi, re­gistrando la sua uscita di sce­na con aggiunta di svarione, e­stremo scivolamento linguistico di una carriera sintatticamente zoppicante. Nella nota vicenda le­ghista il Trota avrebbe inconsa­pevolmente travolto anche un congiuntivo, motivando quel suo passo indietro «senza che nessu­no me l’ha chiesto». Nell’agita­zione del momento è comprensi­bile che uno guardi piuttosto ai contenuti che non alla forma, del resto un errorino scappa. Succe­de nelle migliori famiglie. «Ho de­ciso, continuerò a scrivere qual’ è con l’apostrofo come Pirandello e Landolfi». Così aveva replicato Roberto Saviano a quanti aveva­no trasformato in un caso, non privo di partigianeria, lo strafal­cione sfuggitogli su Twitter . Evi­dentemente Saviano twitta da sé, senza passare dall’ufficio stampa, aveva concluso qualcuno, e in tanti sui blog avevano solidariz­zato con quell’inciampo: se erra­re è umano, Saviano lo è un po’ di più.

Anche i vip sbagliano, che conso­lazione. Però, si potrà anche bran­dire Pirandello, in nome dello sva­rione colto ma qual è si dovrebbe continuare a scrivere senza apo­strofo. Partigianeria a parte. E un po’ con l’apostrofo e non con l’ac­cento, sta con nessuno dei due, come ben si è capito grazie alla querelle a mezzo stampa tra il giornalista del Corriere Gian An­tonio Stella e l’onorevole Mi­chaela Biancofiore, sbertucciata per una serie di strafalcioni ma­dornali che la deputata avrebbe, in risposta, attribuito ai tranelli del computer. Però attenti a certi snobismi: chi può dire di non a­ver mai avuto un dubbio sul co­me si dice o di essere stato incer­to su una doppia, un accento, un apostrofo, una i da omettere o ag­giungere? Le insidie dell’italiano non sono da sottovalutare: il pas­sato remoto di desumere? E di re­dimere? Che differenza passa tra gli urli e le urla? Si dice è inciam­pato o ha inciampato? Frìuli o Friùli? , Ciliegie o ciliege? come dubita il titolo del manuale di pronto intervento che ci forni­scono Valeria della Valle, profes­sore di linguistica alla Sapienza di Roma, e Giuseppe Patota profes­sore di Storia della Lingua italia­na all’Università di Siena-Arezzo. In diciassette anni, da tanto dura il loro sodalizio professionale, i due hanno sfornato nove manuali divulgativi in cui hanno raccon­tato la storia della lingua, la gram­matica e la sintassi, approfondi­to le regole e le eccezioni, spiega­to perché le regole vanno in un senso e non in un altro. O ra, con il decimo volume, arriva la proposta di un pronto soccorso linguisti­co, ortografico, lessicale, sintatti­co, di pronuncia in ordine alfa­betico che, come dice il sottotito­lo affronta 2400 dubbi della lin­gua italiana (Sperling&Kupfer, pagine 300, 15 euro). E che, spie­ga Valeria della Valle «va incontro alle esigenze di un pubblico me­diamente acculturato, che non ha avuto dalla propria carriera sco­lastica una sicurezza nell’uso del­la lingua ma che ha bisogno di so­luzioni immediate e certe. Il Pas­sato remoto di esigere? Si dice be­neficienza o beneficenza? È nevi­cato o ha nevicato? Sogniamo o sognamo? Talentoso o talentuo­so? I dubbi non sono un peccato mortale anzi. La nostra lingua è caratterizzata - spiega la profes­soressa - da una grande duplicità di forme valide entrambe. È il ca­so di devo e debbo, ulivo e olivo, ubbidire e obbedire che sono un retaggio storico. Fino a tutto l’Ot­tocento la prima persona del­l’imperfetto della prima coniuga­zione finiva in a. Si diceva io par­lava, io amava… Poi è arrivato Manzoni, convinto che a dettar legge dovesse essere il Signor U­so e non i grammatici. Poiché nel­l’uso comune la gente diceva io parlavo, io amavo, Manzoni so­stituì le forme. Anche se c’è volu­to tempo perché i cattedratici si a­deguassero derogando alle nor­me tradizionali che considerava­no ferree. Lentamente l’uso vin­ce sulla grammatica. L’uso, cioè la comunità dei parlanti». Ecco il senso dell’operazione dei due cattedratici: senza supponenza hanno deciso di fare un’incursio­ne nell’italiano parlato – un ter­reno minato per tutti – con un’o­perazione divulgativa estrema, che andando al succo dei proble­mi offrisse una sorta di spremuta di sapere a ristoro di chi deve par­lare o scrivere correttamente e ha bisogno di certezze e sicurezze self-service. Di fronte alla scelta tra due forme i professori segna­lano ovviamente quella più cor­retta, con l’indicazione «meglio» ma quando si tratta di confronta­re la forma tradizionalmente più corretta (ma ormai in disuso) e l’altra prevalente nell’uso optano per il modello più comune, se­condo un principio di buon sen­so. Una strategia che nulla ha a che fare con un’ossessiva e sup­ponente attenzione alla purezza linguistica. Anzi, ci tiene Valeria della Valle a puntualizzare, «in materia di lingua bisogna essere molto cauti, non ci sono autorità massime, nessuno può imporre nulla». E vale sempre la regola che non esiste una sola regola. Quan­to all’italiano parlato: è davvero così sgangherato come si dice? È vero che i giovani non lo sanno come ha denunciato recente­mente la professoressa, nonché ministro Fornero (prego, non la Fornero) proprio il giorno dopo i brillanti risultati ottenuti dai più giovani nella seconda Olimpiade dell’italiano a Firenze? «La de­nuncia dello sfascio dell’italiano, sopraffatto dall’inglese, affetto da vergognosa sciatteria, va di pari passo con il persistere di certe for­me caparbie di purismo, da guar­dare con rispetto e affetto ma tal­volta esagerate. Io però non direi mai che sparliamo italiano. È ve­ro che si osservano nel parlato forme di sciatteria, di poca atten­zione alla lingua corretta ma non bisogna esagerare con il cata­strofismo. Pensiamo ai passi a­vanti fatti. 150 anni fa la maggior parte della popolazione parlava dialetto ed era analfabeta. Il pun­to è che l’italiano è una lingua complicata, e stratificata, nata let­teraria - quella di Dante, Petrarca e Boccaccio - che ha sempre scontato un divario tra il model­lo togato e aulico e quello parla­to. Uno scalino ricomposto a metà del Novecento grazie alla tv. Di fatto però, resta lo scivolone, il lapsus, il dubbio, lo strafalcione, di fronte al quale nessuno è tene­ro: dopo l’effetto comico scatta lo scandalo, il disprezzo e la sanzio­ne sociale. Ne sanno qualcosa Di Pietro con il suo che c’azzecca o Lapo Elkann che di congiuntivi non sempre ne azzecca, ripetuta­mente messi alla berlina da ’Stri­scia la notizia’. L’ex ministro Gel­mini che cadde sull’egìda. Lo stra­falcione non viene perdonato dal­l’opinione pubblica. E il marchio di infamia linguistica è duro da far dimenticare, soprattutto per i personaggi pubblici, impresso i­nevitabilmente tra le immagini di you tube o i file di internet.

N é sembrano destinati a stemperare l’imbarazzo i tentativi di rappezzare lo sfregio linguistico. Come ha fatto sperando di minimizzare – in realtà aggravando la figurac­cia – il sindaco di Roma Gianni Alemanno, durante un discorso agli studenti di un liceo a pro­posito di leggi razziali. Dopo u­no speriamo vi servi , un ragazzo si era alzato e aveva lasciato l’au­la magna. Chiarito l’equivoco, che si trattava di una piccata contestazione linguistica e non di una divergenza ideologica il sindaco si era sentito rincuora­to e aveva commentato quel ge­sto di sfida con sufficienza: «E già, quelli del classico a certe co­se ci tengono!».