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 2012  maggio 16 Mercoledì calendario

I DIECI SIGNORI D’ORO DEI MERCATI MONDIALI —

Ray Dalio, fondatore e numero uno del più grande hedge fund del mondo con 120 miliardi di dollari in gestione, racconta che il suo fondo Bridgewater Associates è riuscito a predire la crisi del debito europeo grazie allo studio della storia dell’economia che ha mostrato come le istituzioni finanziarie stessero per avviare un’enorme operazione di riduzione dell’indebitamento (deleveraging). Quell’informazione ha guidato la macro strategia di investimento che ha permesso al suo fondo di mantenere profitti stabili anche durante la crisi finanziaria. Come? Puntando sui titoli del Tesoro Usa e altri bond sovrani senza rischio di credito come i Bund tedeschi o i gilt britannici, su valute come lo yen giapponese e il franco svizzero, ma anche su titoli azionari, ha spiegato il manager in un’intervista sull’ultimo numero del Nikkei Weekly.
Quello che Dalio non dice è che, ogni volta che i suoi fondi puntano su un asset, hanno «muscoli» così possenti, spesso più robusti di quelli di un Paese di medie dimensioni, da poter «muovere» il mercato. E che le decisioni di investimento sono in grado di cambiare il segno agli indici e, talvolta, di affondare uno Stato (come nel caso degli attacchi sul debito sovrano), una valuta (come fece George Soros contro la sterlina e la lira nell’92) o una banca.
La potenza di fuoco di Ray Dalio? Secondo Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve e «padre» della cosiddetta Volcker Rule, la regola di cui si discute oggi per vietare alle banche commerciali di fare investimenti speculativi in conto proprio usando i depositi dei clienti, Bridgewater Associates ha più personale e produce statistiche e analisi più rilevanti della Fed. Non sorprende perciò che a fine febbraio Dalio sia stato incoronato re degli hedge fund: ha fatto guadagnare ai suoi clienti più di qualsiasi altro concorrente.
Con 35,8 miliardi incassati dal ’75 a oggi attraverso Pure Alpha, uno di fondi di Bridgewater, ha surclassato così George Soros, che l’anno scorso è uscito dal gioco, congelando i profitti netti del suo Quantum Fund a 31,2 miliardi di dollari dalla nascita nel ’73. E ha superato anche John Paulson, che ha ricavato fama e fortuna nel 2008, quando tutti perdevano, puntando contro i Cdo, i prodotti strutturati costruiti sui mutui subprime. Nel 2011 le munizioni di Paulson ammontavano a 35 miliardi, ma per lui non è stato un anno altrettanto fortunato e alla fine si è chiuso con perdite del 36% per Advantage Fund, il suo fondo vetrina, contro un utile di 4,9 miliardi nel 2010, tanto da non figurare neppure nella classifica dei 25 hedge fund più ricchi del pianeta.
Le altre facce vincenti degli hedge fund oggi sono quelle di Carl Icahn e James Simon. Il primo, alla guida di Icahn Capital, ha guadagnato 2,5 miliardi in un annus horribilis come il 2011; il secondo, ex professore di matematica e fondatore di Renaissance Technologies, 2,1 miliardi, pur avendo deciso di fare un passo indietro per ricoprire il ruolo di presidente.
Se gli hedge fund sono i bersagli più visibili, ad agitare i mercati contribuiscono i fondi di private equity, come Blackstone co-fondato dall’ex banchiere di investimento oggi miliardario Stephen Schwarzman. Così come i grossi fondi di investimento, molto spesso controllati dai maggiori istituti di credito. La prova? Chiedete sul mercato, vi risponderanno che oggi gli hot shots nel trading si chiamano JPMorgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays, Crédit Suisse, Ubs, Societé Générale, Paribas, Nomura, Jeffries. Tutti nomi noti dalle spalle robuste. Insieme ad altri nomi meno noti al grande pubblico, più piccoli e focalizzati.
Non è un caso che gli ultimi scandali che hanno scosso la finanza siano nati proprio all’intero di grandi banche famose: SocGen, Goldman Sachs, Ubs e Jp Morgan. Con una singolare coincidenza. In tre casi su quattro l’autore degli investimenti spericolati è un giovane broker francese, che quasi sempre opera da un ufficio londinese.
Jérôme Kérviel, 31 anni, specialista nei contratti future, nel gennaio 2008 provoca un buco da 4,9 miliardi di euro nel bilancio di Société Générale. E subisce una condanna a cinque anni oltre all’onere di risarcire la banca.
Nell’aprile del 2010 Fabrice Tourre, 31 anni, vice president di Goldman Sachs, viene accusato di frode insieme alla banca d’affari dalla Sec. Secondo la denuncia della Sec, Tourre, che dall’ottobre 2007 opera nella filiale londinese di Goldman, è il principale responsabile della creazione, all’inizio del 2007, di Abacus 2007-Ac1. E Abacus è lo strumento strutturato che ha contribuito alla peggiore crisi finanziaria del dopoguerra, ingigantendo le perdite associate al collasso del mercato immobiliare americano.
Lo scorso settembre i riflettori si accendono su Kweku Adoboli, 31 anni, cittadino ghanese, arrestato dalla City Police per «frode generata abusando delle propria posizione», «colpevole» di aver mandato in fumo 2 miliardi di dollari della più grande banca svizzera (il suo bilancio è quattro volte il Pil della repubblica elvetica).
Anche Bruno Michel Iksil, che con il suo hedging finora ha fatto perdere 2 miliardi a JPMorgan Chase, è nato in Francia e opera da Londra, negli uffici di Canary Wharf che la banca americana ha comprato da Lehman Brothers dopo il suo fallimento per 495 milioni di sterline, circa 622 milioni di euro al cambio attuale. Iksil, per la verità, aveva già attirato l’attenzione su di sé per la entità delle sue scommesse sui derivati, tanto che sul mercato alcune controparti dei suoi investimenti lo soprannominano Voldemort, come il cattivo di Harry Potter.
Ufficialmente il compito principale di Iksil consiste nel coprire i rischi e investire il denaro in eccesso, di fatto le transazioni sono abbastanza grandi da muovere gli indici e assomigliare molto a scommesse per conto della banca. E lo stesso Iksil sceglie per sé il nomignolo di Balena di Londra, lo stesso (@LondonWhale) che usa per il suo account su Twitter, ora sospeso.
Sull’operato del trader il Dipartimento di Giustizia americano ha aperto un’indagine preliminare, guidata dall’ufficio newyorchese dell’Fbi, sebbene per ora non sia ancora chiaro quali sarebbero le violazioni commesse. Anche la settimana scorsa la Sec ha avviato un accertamento sulle perdite della banca, che ha visto in pochi giorni diminuire la sua capitalizzazione di 18 miliardi di dollari.
In attesa dei risultati delle inchieste, lo scandalo solleva di nuovo la questione del controllo e dell’adeguatezza dei modelli di valutazione dei rischi negli istituti di credito. Perché questo ultimo caso dimostra ancora una volta che la tendenza alla JPMorgan come in tanti altri istituti, da Citigroup a SocGen, sembra essere il non controllare con troppa attenzione finché le transazioni, per quanto spregiudicate e più o meno autorizzate, generano ricchi profitti. Salvo accendere un faro, quando ci si accorge che qualcosa è sfuggito di mano oppure non ha funzionato, all’indomani di una forte perdita inattesa.
In termini assoluti, il buco di Iksil, se resterà tale, non è un disastro per un ufficio con un bilancio da 350 miliardi di dollari, meno della metà della perdita subita da SocGen a causa delle operazioni spericolate di Kerviel. Il problema, piuttosto è d’immagine (per Jamie Dimon) e politico. Wall Street dimostra ancora una volta che nessuno è al riparo, nemmeno la banca più affidabile degli Stati Uniti. E forse l’unico argine a difesa del risparmio, come ieri ha ripetuto anche il segretario del Tesoro Tim Geithner, sono regole più rigide.
Giuliana Ferraino