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 2012  maggio 14 Lunedì calendario

Bancarotta atto secondo – I banchieri sono tornati a colpire. Anche se hanno i toni più soft e la maschera suadente di Jamie Dimon (foto sotto), capo di JP Morgan, sono rimasti quelli del 2008

Bancarotta atto secondo – I banchieri sono tornati a colpire. Anche se hanno i toni più soft e la maschera suadente di Jamie Dimon (foto sotto), capo di JP Morgan, sono rimasti quelli del 2008. Impuniti, impenitenti, pericolosi come quattro anni fa quando scatenarono la grande crisi. Quella lezione non è servita a niente. Sulle due sponde dell’Atlantico, due disastri paralleli portano di nuovo le impronte digitali dei Signori della finanza. Se la Spagna rischia il default, è perché le sue banche la stanno affondando. Madrid ha dovuto nazionalizzare in fretta e furia la terza banca del paese che stava fallendo (Bankia), ma l’intero settore creditizio traballa paurosamente sotto il peso di oltre 100 miliardi di crediti inesigibili legati alla bolla immobiliare. L’Europa e Angela Merkel continuano a infliggere al governo Rajoy dosi mortali di austerity che peggiorano la recessione e la disoccupazione, mentre il vero male sta altrove: nelle banche. Qui a New York, l’establishment della finanza è recidivo, con gli stessi metodi e la stessa arroganza degli anni pre-crisi. La più grande banca americana, JP Morgan Chase, ha “scoperto” giovedì sera un buco di almeno 2 miliardi di dollari, che potrebbero diventare molti di più. La JP Morgan è un colosso dalle spalle robuste, e anche se il titolo è crollato del 9,3% nella seduta di venerdì, per il momento nessuno evoca la possibilità di un suo fallimento. Tuttavia questa vicenda è allarmante per diverse ragioni. Anzitutto perché il suo chief executive Dimon si era costruito la reputazione del “banchiere più saggio di Wall Street”, avendo attraversato lo tsunami del 2008-2009 con meno danni dei suoi colleghi e concorrenti; al punto che JP Morgan fu l’unico colosso del credito a non dover elemosinare aiuti dall’Amministrazione Obama. Seconda ragione dello sconcerto: l’improvvisa voragine di 2 miliardi è legata a complesse speculazioni sui credit default swaps (Cds). I Cds sono titoli derivati che fungono da polizze assicurative e servono a proteggersi dall’eventualità di bancarotta di una società a cui il banchiere ha prestato soldi, oppure dalla quale ha comprato dei bond (obbligazioni). Gli stessi Cds però possono servire non a scopo precauzionale, bensì per la finalità opposta: una speculazione aggressiva di chi “scommette” sui fallimenti societari. Una storia vecchia? Certo, stravecchia: fu attraverso titoli strutturati di questo tipo che la bolla dei mutui subprime nel 2008 travolse Lehman Brothers e rischiò di mandare in bancarotta la più grande compagnia assicurativa americana, Aig, se a salvare quest’ultima non fosse intervenuto il governo federale e quindi il contribuente americano. Terza ragione di allarme: a che servono le grandi riforme dei mercati finanziari, se siamo già al “remake” delle scorribande speculative del 2008? Del resto in questi quattro anni le “ricadute”, o i comportamenti recidivi, sono già una bella lista: qui a Wall Street abbiamo avuto la bancarotta del fondo Mf Global travolto da puntate speculative sui bond dell’eurozona; a Londra un solo trader ha fatto perdere 2,3 miliardi di dollari alla banca svizzera Ubs. Tutto come prima? Sulla carta, dovrebbe essere impossibile. Soprattutto nel caso della JP Morgan, la quale in virtù delle sue dimensioni colossali è una “vigilata speciale” da parte delle authority di controllo americane. Sul serio. All’interno del quartier generale dove Dimon lavora al 48esimo piano, nell’imponente grattacielo sulla Park Avenue, sono “ospiti fissi” ben 40 ispettori della Federal Reserve Bank of New York, quella succursale della banca centrale che ha diretta competenza su Wall Street. Dunque la JP Morgan ha dei segugi “embedded”, come si suol dire dei giornalisti che vengono inquadrati fra le truppe americane al fronte. Anche loro non hanno visto nulla? E che dire della singola squadra d’investitori che nell’ufficio di Londra ha generato il “buco” di 2 miliardi? Uno di questi trader è già divenuto leggenda: Bruno Iksil detto “lo Squalo di Londra”. Un profano potrebbe immaginarsi che sotto la direzione dello Squalo lavorino centinaia di esperti. Macché: il Chief Investment Office, come viene chiamato all’interno di JP Morgan quel dipartimento, è una minuscola entità. Ci lavorano poco più di una trentina di trader e analisti, su 270.000 dipendenti della banca. Il colmo è che la sua responsabilità istituzionale sarebbe “la copertura del rischio”. Dovrebbe cioè analizzare l’insieme dei rischi che la banca sta correndo in un dato momento per effetto di tutte le sue attività globali, e poi proteggerla da incidenti prendendo delle posizioni compensatrici. Invece il Chief Investment Office sotto la guida dello Squalo, e sotto lo sguardo benevolo e incoraggiante di tutto il top management da New York, si è messo a giocare d’azzardo. Ha cominciato a piazzare sul mercato “titoli strutturati”, composti con credit default swap su indici di varie società Usa (da McDonald’s a General Millas, Alcoa). Quella che doveva essere l’unità di controllo dei rischi, ha cominciato ad assumersi dei rischi in proprio. E crescenti. Se all’epoca pre-crisi nel 2007 l’ufficio di Londra aveva in portafoglio meno di 80 miliardi di dollari di investimenti, l’anno scorso era salito a 356 miliardi. Il chief executive Dimon in persona, ha allargato a dismisura l’autorizzazione a guadagnare o perdere: lo Squalo di Londra aveva carta bianca da Park Avenue per guadagnare – o perdere – fino a 129 milioni ogni giorno. Una licenza di uccidere. Di cui Iksil ha fatto uso ampiamente. Ma sempre con la perfetta consapevolezza dei suoi capi di New York. Questo è importante: non siamo di fronte a un caso di “trader-pirata” come quello che affondò la Société Générale. Dimon non ha potuto tentare di dissociarsi: tutti sapevano che lui sapeva. In Spagna i banchieri possono trascinare nel default un’intera nazione, scatenando l’effetto domino in tutta l’eurozona. Le banche italiane suscitano diffidenza al punto che la Goldman Sachs si è sbarazzata di quasi tutti i loro titoli per sostituirli con dei Bot. Ma anche in America il “buco” di JP Morgan ha ricadute a cerchi concentrici, che investono il sistema politico. Perché il “banchiere saggio” aveva capitalizzato la sua reputazione, usandola a Washington in modo spregiudicato. E’ qui che bisogna cercare la risposta al quesito: perché i 40 ispettori della vigilanza “infiltrati” in permanenza negli uffici di Park Avenue non hanno impedito l’incidente? Perché non hanno l’autorità per farlo. I controllori della Federal Reserve hanno potuto solo “chiedere spiegazioni” a Dimon, il quale dall’inizio di aprile fino al 10 maggio ha sempre risposto: “Tranquilli, nessun problema, è tutto sotto controllo”. E dove sono le nuove regole varate sotto l’Amministrazione Obama per impedire un “remake” del 2008? Qui si apre un altro giallo, di nuovo con Dimon nella parte del protagonista malefico. In teoria la grande riforma di Obama, che si chiama la legge Dodd-Frank dal nome dei due parlamentari firmatari, stabilisce un principio sano: le maxi-banche, quelle che sono “troppo grosse per fallire” (nel senso che un loro crac avrebbe conseguenze sistemiche e quindi lo Stato sarebbe costretto a salvarle coi soldi del contribuente) non possono più fare speculazione. Non coi capitali propri. Possono sempre agire da intermediari per i loro clienti, piazzare in Borsa i loro ordini, ma questo non comporta rischi per la banca stessa perché è l’investitore a guadagnare o perdere. Dunque la regola del “too big to fail” (troppo grande per fallire) ha come corollario il divieto del “proprietary trading” (trading effettuato con mezzi propri). Quest’ultimo viene anche chiamato la Regola Volcker, perché a battersi strenuamente per questo limite è stato l’ex governatore della Fed Paul Volcker, lui sì un grande saggio della finanza. Ma da quando la Dodd-Frank è stata approvata, Dimon ha lavorato ai fianchi di Washington per svuotarla. Poiché la legge Dodd-Frank definisce le linee generali, ma poi va riempita di contenuti attraverso regolamenti attuativi, per lo più di competenza delle authority, Dimon si è adoperato per “allargare” l’interpretazione fino a stravolgerla, vanificarla. Sfruttando proprio la sua fama di prudenza, e il fatto di essere il banchiere meno macchiato dalla crisi del 2008, Dimon ha distribuito milioni di dollari ai suoi lobbisti di Washington perché facessero pressione sui parlamentari. L’argomento forte, che Dimon ha ripetuto a una cena privata di pochi giorni fa: “Se c’impedite di fare investimenti a copertura del rischio, la nostra attività sarà penalizzata e i nostri bilanci ne soffriranno”. Dimon non ha esitato ad accusare di “incompetenza” un patriarca rispettato come Volcker. Ha trovato alleati in alcune zone dell’Amministrazione pubblica come il Dipartimento del Tesoro, pieno zeppo di ex-banchieri di Wall Street. I suoi migliori alleati del partito repubblicano hanno letteralmente strangolato gli organi di vigilanza, negandogli fondi per il funzionamento. Una memorabile battaglia della destra impedì la nomina di Elizabeth Warren, paladina dei risparmiatori, alla testa della nuova authority per i controllo sui prodotti finanziari. “Alla fine – commenta il senatore democratico Carl Levine – tutti quegli sforzi hanno allargato le maglie interpretative della legge, al punto che ci può passare in mezzo un Tir”.