ILARIA MARIA SALA, La Stampa 14/5/2012, 14 maggio 2012
Wenzhou, tra i cinesi con la pizza nel cuore - Cao Danti arriva all’appuntamento in una sala da tè nel centro di Wenzhou sfoggiando camicia e pantaloni in tessuti di evidente qualità, cosa tuttora rara fra gli uomini cinesi
Wenzhou, tra i cinesi con la pizza nel cuore - Cao Danti arriva all’appuntamento in una sala da tè nel centro di Wenzhou sfoggiando camicia e pantaloni in tessuti di evidente qualità, cosa tuttora rara fra gli uomini cinesi. Ha modi impeccabili, e mentre versa il tè racconta la sua odissea, partendo da lontano: «Qingtian e Wencheng, due piccoli borghi nella provincia di Wenzhou, sono storicamente luoghi di partenza per un gran numero di huaqiao (i “cinesi d’oltremare” stabilitisi all’estero)», dice del suo luogo di nascita. «In parte, per povertà: sono regioni montane, con scarse terre agricole e la morfologia del terreno ha reso più facile partire via mare che avventurarsi all’interno valicando le montagne. Così, un po’ per geografia, un po’ per tradizione storica, siamo diventati un popolo di emigranti», dice. Così è stato anche per lui, ventisei anni fa, quando partì per l’Olanda grazie a un parente che si trovava lì, per poi arrivare in Italia: «Mi ero innamorato del cinema italiano che potevamo vedere in Cina all’epoca, e dell’architettura che vedevo sulle foto dei periodici illustrati», dice con un sorriso. Una passione non solo per il commercio, dunque, che lo contraddistingue dai suoi concittadini. Secondo le statistiche disponibili, quasi il 90% dei cinesi in Italia arrivano proprio da Wenzhou e dintorni: una città del Zhejiang (Sud della Cina), di 2,5 milioni di abitanti, 9 milioni calcolando la popolazione della provincia. In alcuni luoghi, come Qingtian, l’emigrazione verso l’Europa raggiunge il 60% della popolazione, anche se in questo periodo di crisi economica europea molti decidono di tornare indietro. Ma l’Europa, e l’Italia in particolare, se la portano appiccicata addosso. Non solo nei vestiti in tessuti di qualità, ma in una nostalgia palpabile: in centro, ci sono centinaia di negozietti di abbigliamento con vetrine con paesaggi italiani, e nomi improbabili come Genio La Mode, o La Féta. E Wenzhou è cosparsa di bar e ristoranti italiani del tutto diversi da quelli che si trovano in altre città cinesi. Non si tratta dei locali chic di Pechino o Shanghai frequentati in modo massiccio da stranieri: questi sono posti privi delle eccessive pretese modaiole delle grandi città, e che non stonerebbero in Italia. Hanno nomi che fanno sorridere: il caffè Ally, che sfoggia prodotti Illy. Il ristorante 0039, aperto da due «wenzhouesi» che si sono consultati con Wang, cuoco di Ostia, tornato in Cina per due anni per insegnare i segreti della cucina italiana ad alcuni apprendisti e poi ripartire per l’Italia. Wang lo ha voluto chiamare così perché «mia moglie è in Italia, con nostro figlio, che è nato a Ostia e non sente nessuna affinità con la Cina. Per chiamarli, devo sempre comporre lo 0039, ed è il numero che mi sta più a cuore…», racconta. La sua cucina comprende tutti i piatti di una buona trattoria italiana, pasta al dente, pizze sottili, insalate, secondi e dessert che potrebbero essere stati cucinati da un cuoco italiano di tutto rispetto. Wang accoglie con modestia il complimento, abbassando lo sguardo con un sorriso e vestito con una divisa bianca bordata con un nastrino con la bandiera italiana - che del resto sventola con fierezza anche fuori dallo 0039, per quanto il locale sia gestito e ideato da cinesi. Cinesi sono anche gli avventori: i quali, qui come al ristorante Napoli, del quartiere residenziale di Xialupu, mangiano cibo italiano «alla cinese», ovvero mettendo tutti gli ordini nel centro della tavola e dividendo ogni piatto. Le pizzerie abbondano, ma c’è anche una Piazza Roma, nel centro di una zona commerciale che si chiama Europe City. Wenzhou è la Cina nel suo stato più anarchico e indaffarato: negozi e negozietti dove non si sa bene che cosa succeda che aprono e chiudono senza sosta, ma anche decine di chiese, cattoliche e protestanti, dato che a Wenzhou, terra di emigrazione e di ritorni, la presenza cristiana è molto forte. Nella grande via che porta alla stazione centrale, la Chezhan Dadao, si trovano diversi negozi di vini: alcuni, grazie al fatto che la diaspora wenzhouese va anche verso la Francia, vendono champagne e molto cognac. Ma Song Xiaohua, il proprietario di Barolo, un negozio con degustazione sul posto, spiega che «per molti cinesi quello che riguarda l’Italia è più accessibile e genuino. La cucina italiana, per esempio, non richiede preparazioni lunghe e complicate, quindi mette meno soggezione di quella francese. Stessa cosa per i vini, quelli francesi piacciono, ma gli italiani spaventano meno. E adesso, per i matrimoni o compleanni, ogni cinese che voglia fare bella figura offre agli invitati vino». Song, un po’ sbruffone come la versione cinese dello Zio d’America, ha un grosso crocefisso d’oro al collo, quando parla italiano esclama «oh Madonna!» e gesticola con tutti i gesti più caratteristici del Bel Paese, e ha alle spalle una storia ricchissima, trascorsa fra Wenzhou e Roma, Milano, Trieste, Udine e infine Brunico, dove ha aperto il ristorante Tay Yan. Ha passato 27 anni in Italia, riuscendo a guadagnare abbastanza da tornare ora a Wenzhou molto più che benestante. «Ma all’inizio, ero clandestino, eh?», dice, con la fierezza di chi si è tirato su dal nulla. Ha fatto tutti i mestieri, spesso passando dalla ristorazione: «Io mi considero mezzo italiano - dice -, in Italia il cibo è più buono, l’aria è più pulita, e le città sono più belle. A volte mi è capitato di sentirmi dire “tòrnatene in Cina” ma me ne sono sempre fregato», ride, sfregando le dita sotto il mento in segno di indifferenza. E la Cina? «Qui la Luna per me sarà sempre più rotonda, e l’acqua più dolce», risponde. Ora, del resto, tanto lui quanto il figlio, Song Bing – un ragazzo con i capelli tinti «color tè» che beve cappuccino nel bar The Dainty insieme a sua moglie, Giovanna, che lavora nel «pronto moda» - sono tornati a Wenzhou con l’intenzione di restarci: «L’economia italiana ha preso il raffreddore! scherza -. Ma riprendetevi in fretta, perché ne soffriamo tutti». La famiglia Song, fedele alla vocazione di Wenzhou, è tutta di commercianti, «in qualunque cosa, e l’ultimo progetto è sempre il migliore», dice il figlio. Ora, moda e vino, ieri, automobili, scarpe, e tutto il resto immaginabile. Continuano a bere cappuccini fino a notte tarda, con i telefonini che suonano sempre, mentre portano avanti diversi business allo stesso tempo. All’appuntamento con il fotografo, però, Song non viene: dice di avere una riunione fuori città, dove vuole aprire «il più grosso centro massaggi e terapie spa della Cina», e suggerisce di fotografare «qualunque altro cinese, nessuno si accorgerà della differenza». Alcuni di quelli che ritornano, lo fanno con il passaporto italiano in tasca, per quanto questo comporti alcune seccature con il visto cinese. Ma per il cuoco Wang, come per Cao Danti (il cui figlio vive ora a Reggio Emilia), la nostalgia per l’Italia è evidente in ogni parola, in ogni sguardo pieno di ricordi. Cao ha perfino creato un piccolo gruppo chiamato «Chiacchiere aperte», con altri amanti dell’Italia, che si riunisce una volta al mese davanti a un piatto di pasta. E per quanto a noi paia altrimenti, una delle attrattive dell’Italia è che «ci sono regole, nel Paese. Si è più protetti, la qualità della vita è alta, il livello di educazione delle persone è un’altra cosa», come ripetono tutti.