Paolo Migliavacca, Il Sole 24 Ore 14/5/2012, 14 maggio 2012
LA NATO SI CONCENTRA SULL’EUROPA
Strette di mano e pacche sulle spalle tra i vari leader, un profluvio di "photo-opportunity", musica jazz offerta dalla banda dello Shape. E poi? Soddisfatti i media, a caccia d’immagini-ricordo e di dichiarazioni più o meno solenni, di cosa si discuterà al vertice Nato che si terrà a Chicago il 20 e il 21 maggio? In agenda compaiono alcuni compiti nuovi rispetto alla tradizionale difesa del proprio territorio, con cui l’Alleanza si misura già da qualche anno: lotta alla pirateria marittima, contrasto alle cyber-war e alla diffusione delle armi di distruzione di massa, oltre all’ormai tradizionale sfida al terrorismo internazionale. Oltre alle prospettive generali della Nato che restano la vera incognita.
Come si ripete ormai da un ventennio, con un po’ di cinismo, nelle cancellerie di molti Paesi membri, la Nato "ha un brillante futuro alle spalle" e, vinta la Guerra Fredda senza colpo ferire (questo il principale merito), resta sempre alla ricerca di un preciso ruolo di fondo da svolgere. Ma, prima di sfidare il futuro, la Nato ha ancora una spinosa situazione sul campo da affrontare. Vinto il conflitto libico, l’Alleanza è sempre impantanata in Afghanistan. E il tempo non gioca certo a suo favore, se è vero che lo stallo prelude a una ritirata generale, più o meno camuffata da un’intesa con il governo afghano, come ha concordato il presidente Obama con il collega Karzai il 2 maggio scorso, durante un viaggio-lampo a Kabul.
Sul campo prosegue il piano di progressiva "afghanizzazione" del conflitto. I 130mila uomini dell’Isaf (il corpo di spedizione, sotto "ombrello" Nato, formato da 50 Paesi, per il 70% costituito da truppe Usa), insieme ai 180mila soldati locali, sono impegnati a combattere 70-75mila guerriglieri di varie fazioni, soprattutto Taliban. Compito improbo già a ranghi completi, tanto che - come ammise fin dal 2008 con il New York Times l’allora comandante dell’Isaf, David Petraeus - la guerriglia ha costantemente guadagnato terreno, come ha dimostrato nelle scorse settimane attaccando in forze fin nel centro di Kabul. Invece presto inizierà la exit strategy, il ritiro programmato delle truppe Isaf: tra il settembre 2012 e 2013 se ne andranno 33mila soldati Usa, cui si uniranno più o meno rapidamente gli altri grandi contributori di truppe: la Francia subito (se il neo-presidente François Hollande manterrà l’impegno elettorale dell’immediato ritiro), Italia e Germania più lentamente, gli altri alla spicciolata. Il risultato, dopo il dicembre 2014, dovrebbe essere un Afghanistan in grado di auto-difendersi, salvo l’aiuto di alcune migliaia (forse 10-20 mila) "istruttori" e "consiglieri". «A Chicago decideremo come continuare a sostenerli dopo tale data - ha sostenuto nelle scorse settimane il segretario generale Nato, Anders Fogh Rasmussen - per essere certi che manterremo i risultati ottenuti impiegando così tanto sangue e risorse».
Secondo un parere diffuso negli ambienti Nato europei, l’errore decisivo è stato commesso nel 2010 dal presidente Obama, con l’annuncio pubblico - per forzare il risultato delle elezioni Usa di midterm - del ritiro entro il 2014 senza aver negoziato in qualche modo con la guerriglia il futuro del Paese (anche se in seguito alcune trattative, infruttuose, pare si siano svolte in Qatar). Se questo sarà l’esito finale di un quindicennio di guerra sanguinosa, la Nato sarà probabilmente indicata come l’imputato principale. Anche se fin da ora le colpe dei militari sul campo appaiono assai minori di quelle degli "strateghi" politici.
Resta il fatto che appare a rischio tutto il piano strategico che punta, attraverso l’Afghanistan, a controllare le enormi risorse minerarie ed energetiche (queste ultime pari a 12.700 miliardi di metri cubici di gas e a 41 miliardi di barili di petrolio) dell’Asia centrale ex sovietica. Che questo fosse il disegno Usa lo dimostra il progetto di un gasdotto di 1.750 km, sponsorizzato dalla Unocal (dal 2005 controllata dalla Chevron) durante la presidenza Clinton, che avrebbe dovuto congiungere il grande giacimento di Dauletabad nel Turkmenistan, ricco di 1.400 miliardi di metri cubici, al confine indo-pakistano.
Mire analoghe ha l’India, uno dei Paesi più generosi in aiuti al governo afghano (1,2 miliardi di dollari nell’ultimo decennio), che mantiene la sua unica base militare all’estero a Farkhor, nel Tagikistan, proprio lungo il confine afghano, dove sono schierati vari MiG-29. Ma anche la Cina, già presente in vari progetti minerari afghani, è interessata alla regione e, più indirettamente, la Russia. Segno eloquente che tutte le maggiori potenze asiatiche si stanno preparando per tempo al "dopo-Nato".
L’Alleanza sembra dunque destinata a un ennesimo cambio di strategia, con nuove sfide adeguate a tempi di crisi non più solo di tipo militare, ma soprattutto finanziario. Da alcuni mesi impera la cosiddetta "Smart Defence": assolvere più compiti con meno mezzi, soprattutto mediante la messa in comune di quanto i sempre più magri bilanci militari consentono. Inoltre, dopo l’Afghanistan, per la Nato sembra profilarsi anche un riorientamento geografico, con un futuro di nuovo più "eurocentrico" e un occhio attento (come rivela l’intervento in Libia) soprattutto a quanto bolle nel delicatissimo calderone del Vicino Oriente, nell’ottica del cosiddetto "Mediterraneo allargato". Mentre gli Usa si concentreranno sul problema-Cina.