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 2012  maggio 15 Martedì calendario

OGNI CITTADINO SPENDE 2.849 EURO PER I DIPENDENTI PUBBLICI —

Se si misura il costo degli stipendi pubblici in rapporto ai cittadini, noi italiani spendiamo decisamente più dei tedeschi: 2.849 euro ciascuno, contro 2.830 euro in Germania. Ovvio. Meno ovvio, forse, che la nostra spesa procapite sia superiore anche a quella di Grecia (2.436) e Spagna (2.708). Va detto che ci sono Paesi anche più generosi dell’Italia. Per esempio il Regno Unito (3.118) e l’Olanda (3.557). Per non parlare della Francia (4.001), dove peraltro dovrebbe salire quest’anno ancora di 4 miliardi.
Il vero problema non è però il livello della spesa, peraltro perfettamente allineato alla media europea dell’11,1% del Prodotto interno lordo (anche se di ben 3,2 punti superiore alla Germania dove in dieci anni è calato dello 0,3% mentre da noi è salito dello 0,6%). Piuttosto, la sua efficienza, e qui sta il vero problema della pubblica amministrazione made in Italy. Lo dice senza mezzi termini un rapporto della Corte dei conti: «In un contesto caratterizzato dalla perdita di competitività del sistema Italia preoccupanti segnali riguardano la produttività del settore pubblico». In quella relazione appena sfornata dalla magistratura presieduta da Luigi Giampaolino c’è un grafico che mostra come proprio la produttività, cresciuta nel 2010 di oltre il 2%, sia tornata lo scorso anno a zero, ricominciando nel 2012 perfino a scendere «in linea con le stime dell’andamento del Pil». Dunque, il costo del lavoro per unità di prodotto riprende a salire. Di chi la colpa? L’assenza della meritocrazia. La relazione spiega che il blocco della contrattazione deciso nel 2010 per tamponare le spese ha «comportato il rinvio delle norme più significative in materia di valutazione del merito individuale e dell’impegno dei dipendenti contenute nel decreto legislativo n. 150 del 2009». Ma ha pure «impedito l’avvio del nuovo modello di relazioni sindacali delineato nell’intesa del 30 aprile 2009 maggiormente orientato a una effettiva correlazione tra l’erogazione di trattamenti accessori e il recupero di efficienza delle amministrazioni».
Musica per le orecchie dell’ex ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, artefice di quella operazione. Mentre il successore Filippo Patroni Griffi, che era stato anche capo di gabinetto dello stesso Brunetta, non ha resistito: «Premiare i migliori e aumentare la produttività sono le nostre priorità. Bisogna metterle in pratica». Anche se i magistrati non ne sembrano proprio convinti, a giudicare dalle «perplessità» sul «contenuto della recente intesa fra Governo, Regioni, Province, Comuni e sindacati» manifestate nel rapporto. La Corte dei conti dice che quell’accordo, «azzerando il percorso» della riforma Brunetta, rischia di lasciare tutto com’è: consentendo cioè che nel pubblico impiego si privilegi la «distribuzione indifferenziata dei trattamenti accessori al di fuori di criteri realmente selettivi e premiali».
Intanto però gli effetti del giro di vite deciso un paio d’anni fa si sono fatti sentire, eccome. Basta dire che per la prima volta, da quando è stata introdotta una specie di «privatizzazione» del rapporto di lavoro, il costo del personale pubblico nel 2010 è diminuito. Esattamente dell’1,5%, per un esborso complessivo di 152,2 miliardi. Niente di eclatante, ma per un Paese come l’Italia è un fatto storico. I dipendenti pubblici a fine 2010 erano 3 milioni 458.857. Ovvero, 67.174 in meno rispetto a un anno prima. Si è sforbiciato dappertutto, con un paio di eccezioni. Come le solite Regioni e Province a statuto speciale, che neppure nel 2010 hanno voluto rinunciare ad accrescere gli organici: anche in un comparto come la scuola. Mentre nel resto d’Italia il personale scolastico diminuiva di circa 32 mila dipendenti, negli istituti di Trento e Bolzano si gonfiava di 441 unità.
E poi c’è Palazzo Chigi. Nell’annus horribilis del pubblico impiego, mentre scattava quel giro di vite senza precedenti, era l’unico posto dove paghe e dipendenti continuavano ad aumentare a ritmi forsennati. Alla presidenza del Consiglio dei ministri, nel 2010, si spendevano per gli stipendi al personale 198 milioni e 700 mila euro: l’11,2% in più in un solo anno. Depurando la cifra degli arretrati, si arriva addirittura al 15,5%. Semplicemente pazzesco l’aumento dell’esborso per le retribuzioni dirigenziali, cresciuto del 20%. Con punte astronomiche del 35,5% e del 57% rispettivamente per i dirigenti di prima e seconda fascia a tempo determinato. Il tutto mentre anche il numero dei cedolini saliva senza sosta. Alla fine dell’anno raggiungeva le 2.543 unità con un aumento del 7%, che toccava l’8,9% considerando il solo personale non dirigente. Motivo, la stabilizzazione di ben 142 precari.
Com’è possibile che questo sia accaduto nonostante il blocco delle buste paga di tutti i dipendenti pubblici? Elementare: «Incrementando gli addetti della Protezione civile ed estendendo l’applicazione dei contratti collettivi del comparto al personale trasferito alla presidenza del Consiglio», fra cui «gli addetti alla segreteria tecnica del Cipe» e quelli «in servizio presso il dipartimento del Turismo e dello sport», spiega la relazione della Corte dei conti. Nella quale si sottolinea come nel 2010 siano state finalmente considerate in quella voce di spesa anche le retribuzioni dei collaboratori dei politici, estranei alla pubblica amministrazione. Il dato di quanti fossero nel penultimo anno del governo di Silvio Berlusconi non è conosciuto: né il rapporto rivela il numero dei dipendenti presi «in prestito» da altri uffici pubblici. Specificando però che questi, "pur in flessione», continuano «a rappresentare oltre il 40% del personale in servizio». Se questo è vero, nella miriade di uffici della presidenza del Consiglio disseminati per Roma lavorano non meno di 4.500 persone.
Più o meno quante ne mancano nella pubblica amministrazione a causa dei permessi e dei distacchi sindacali. Rielaborando i dati della Funzione pubblica, la Corte dei conti giunge a questa conclusione: «la fruizione di aspettative retribuite, permessi, permessi cumulabili e distacchi relativamente al 2010 può essere stimata come l’equivalente all’assenza dal servizio per un intero anno lavorativo di 4.569 unità, pari a un dipendente ogni 550 in servizio». Con un costo «a carico dell’erario» pari a 151 milioni. E «al netto degli oneri riflessi».
Sergio Rizzo