Massimo Mucchetti, CorrierEconomia 14/05/2012, 14 maggio 2012
AUTOSTRADE. TEMPO DI FUSIONI E DI CONCESSIONI PROLUNGATE
In Italia sono in costruzione 182 chilometri di autostrade. Altri 818 chilometri sono programmati da convenzioni già firmate dai concessionari.
Mille chilometri di nuove autostrade comportano investimenti calcolabili in 20 miliardi di euro, capaci di generare 300 mila posti di lavoro diretti e indiretti nel periodo di costruzione. Un contributo alla tenuta dell’economia del Paese. Sulla carta. In realtà, i cantieri già aperti, o anche solo messi a gara, boccheggiano, perché i piani finanziari rischiano di saltare. L’impennata dei prezzi dei carburanti e la lunga stagnazione dell’economia stanno riducendo il traffico, e dunque i ricavi da pedaggio previsti dai concessionari. Quanto alle opere programmate, ma non ancora avviate e nemmeno messe a gara, il loro congelamento diventa sempre più probabile sia per le ragioni già dette sia per il venir meno dei contributi a fondo perduto dello Stato, necessari a coprire quella parte di costi che non potrà mai essere recuperata in tariffa. Che fare, dunque?
Scelte strategiche
Possiamo tirarci indietro: niente nuove autostrade. Non miglioriamo la rete infrastrutturale del Paese, ancorché le congestioni comportino costose inefficienze per l’intera economia. Ma almeno non appesantiamo i conti pubblici. Oppure possiamo sforzarci di estrarre dal settore privato e dalle concessioni le risorse per questo genere di nuovi investimenti. Non si tratta tanto di privatizzare le ultime concessionarie pubbliche rimaste, anche se la Serenissima, che collega Brescia a Padova, è appena passata sotto Intesa Sanpaolo con il costruttore romano Astaldi quale partner industriale. Si tratta soprattutto di superare la frammentazione delle concessionarie che impedisce le economie di scala finanziarie e di riconsiderare le scadenze delle concessioni.
Secondo l’Aiscat, l’associazione di categoria, l’Italia dispone di 5.689 chilometri di autostrade a pedaggio dati in concessione a 23 concessionarie. Il 60%, pari a 3.413 chilometri, appartiene ad Autostrade per l’Italia, gruppo Atlantia ovvero Benetton. Il resto si suddivide per 1.053 tra Sias e Autostrada Torino-Milano, gruppo Gavio, e per 1.782 chilometri tra concessionarie a proprietà miste e concessionarie controllate da enti locali e Camere di commercio. Questa terza gamba del sistema autostradale è formata da società piccole e piccolissime, incapaci di sostenere lo sviluppo della rete.
Ingorgo milanese
Il caso esemplare è Milano, su cui convergono quattro autostrade: la Milano-Serravalle (Provincia e altri), la Torino-Milano (Gavio), l’Autostrada dei Laghi e la Milano-Bergamo (Benetton). Altre tre tratte sono ancora da costruire: la Brebemi, la Tangenziali Est Esterna e la Pedemontana Lombarda. Se la Brebemi, con una proprietà consortile, è partita (a fatica), le altre due, cruciali per sbloccare le congestioni attorno al capoluogo lombardo, sono al palo da lustri. La ragione principale è che la loro società controllante, la Milano-Serravalle/Milano-Tangenziali, non riesce a versare la sua quota di capitale. Perché? Perché non può ottenere altro credito avendo già un po’ di debiti e soprattutto dovendo destinare gli utili al suo indebitatissimo azionista principale, la Provincia di Milano. A bocce ferme, lo stallo appare destinato a trascinarsi a lungo, visto che la concessione Serravalle scade nel 2028. Come uscirne e far partire davvero 7,5 miliardi di investimenti?
Le possibilità
Le leve sono tre, valide non solo in Lombardia:
a) aggregare e magari fondere le società concessionarie pubbliche limitrofe e coordinarne le tariffe, oggi relativamente basse sulle tratte in funzione e già in buona parte ammortizzate e alte ma teoriche sulle tratte nuove;
b) rivedere la durata residua delle concessioni, parecchie delle quali sono ormai prossime alla scadenza;
c) aumentare il capitale con il contributo di nuovi soci adatti a un investimento di lungo periodo.
La prima leva può incrementare i flussi di cassa già in atto, aumentando un po’ i pedaggi ed estendendoli, sotto la regia delle Regioni, alle grandi vie oggi non pedaggiate ma fortemente congestionate. La seconda leva fa salire il valore dell’impresa e la rende più finanziabile. La terza leva concorre a potenziare in modo diretto le capacità d’investimento.
Orizzonti più lunghi
Queste tre leve aprono problemi da non sottovalutare. L’aggregazione delle società consente di usare il cash flow operativo del vecchio per finanziare il nuovo. Ma l’aumento dei pedaggi vigenti e l’introduzione di tariffe di congestione sia sulle autostrade suburbane che sulle grandi statali metropolitane vanno legati in modo efficace ed equo ai nuovi investimenti, obiettivo non scontato viste tante esperienze. Allungare la durata delle concessioni può valere centinaia di milioni a concessione, buoni per surrogare i contributi pubblici a fondo perduto non più disponibili per il nuovo, ma come farlo in modo trasparente, visti gli antichi intrecci tra concedenti e concessionari? Ma è pur vero che investire tanto senza aver tempo di ammortizzare genera valori di subentro troppo alti: alla scadenza della concessione, il concedente o il nuovo entrante dovrebbero riconoscere all’uscente somme tali da ridurre a poco il versamento al concedente e favorire comunque l’uscente. L’aumento di capitale, che aiuta ma non può sostituire le altre leve, impone scelte ragionevoli nella selezione dei soci. Nel 2000, quando l’Iri privatizzò Autostrade, si vietò l’ingresso dei costruttori nella grande concessionaria cui venne proibito di realizzare in house gli investimenti. Nel 2011, nella Serenissima privatizzata figurano Astaldi, Gavio, costruttore e concessionario, e Mantovani. Nelle nuove aggregazioni potrebbero giocare un ruolo anche i concessionari esistenti, purché non egemone e comunque riequilibrato da istituzioni finanziarie come la Cassa depositi e prestiti e il fondo F2i e da grandi banche come Intesa Sanpaolo e Unicredit.
Massimo Mucchetti