Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 15 Martedì calendario

ARTICOLI SU RENATINO E IL CASO ORLANDI SUI GIORNALI DI OGGI


l’Unità 15.5.12
Renatino, dalla Magliana all’onorata sepoltura
di Angela Camuso

ROMA Enrico De Pedis non beveva, non fumava, non sniffava. Morì di morte rapida un paio di minuti dopo le 13. Era il 2 febbraio del 1990. Un unico proiettile gli si infilò nella schiena e gli fuoriuscì dalla gola, trapassandogli l’aorta. Era a Roma in via del Pellegrino, dietro Campo De’ Fiori, appena uscito dal negozio di un antiquario si era messo in sella al suo motorino ma il killer lo freddò. Aveva 36 anni. Gli avevano teso una trappola i suoi ex amici. E la talpa era stata Angelo Angelotti, il bandito uscito dopo quindici anni di galera e nemmeno un anno dopo, cioè due settimane fa, miseramente ucciso, sempre a Roma, da un gioielliere durante una rapina.
Ieri, in quel cortile della basilica di Sant’Apollinare, è stato subito notato il vestito, blu scuro, elegante e la cravatta bianca, ormai ingiallita che Enrico De Pedis indossava quel giorno lontano dei suoi funerali, che si svolsero senza clamore per poi portare la salma, per una breve permanenza, al cimitero del Verano e dopo seppellirla in Sant’Apollinare. La vedova, che ieri non era nella cripta, aveva in mano la lettera che aveva scritto monsignor Pietro Vergari, allora reggente della basilica e che accreditava quel suo marito capo di una banda di spietati come «un benefattore dei poveri» e «una persona che aveva contribuito all’educazione dei giovani per la loro formazione cristiana e umana». Sta lì, in quella lettera, che servì all’allora capo della Cei, il cardinale Ugo Poletti, a dare il suo nulla osta a quella così onorata sepoltura e che fu firmata da Vergari, già in Vaticano considerato persona dedita a frequentare con troppa disinvoltura gente di malaffare, che sta il mistero su cosa si nasconda dietro quella tomba e di quale sia il legame concreto con la scomparsa di Emanuela Orlandi, di cui De Pedis, com’è noto, è ritenuto dagli investigatori essere stato quanto meno l’organizzatore, se non l’esecutore.
Non fu De Pedis ma fu, secondo la procura, la vedova, Carla Di Giovanni, che di anni ne aveva 46 ed era figlia di buona famiglia a desiderare che il marito defunto fosse seppellito lì. De Pedis viveva all’epoca con lei in un appartamento al V piano dietro il Parlamento, in piazza della Torretta 26 ed era un indirizzo che conoscevano in pochi. E tra i fedelissimi del boss c’era Giuseppe De Tomasi, detto Sergione, o Er Ciccione, scoperto poi essere il telefonista che tentò il depistaggio nei primi giorni del sequestro Orlandi e il cui figlio è autore della famosa telefonata a «Chi l’ha Visto?» che ha insinuato una connessione tra il caso Orlandi e quella tomba.
«De Pedis si sarebbe visto un giorno sottosegretario» dichiarò una volta a chi scrive Antonio Mancini, detto l’Accattone, uno dei capi della banda diventato pentito. Perché era bravo, Renatino, a intessere relazioni e ad avanzare, anche grazie alla sua capacità di far moltiplicare i soldi sporchi. Ma morì a 36 anni. Nella sua cartella clinica che presentava in carcere c’era scritto che era malato terminale di tumore ma l’autopsia registrò tutt’altro: pesava 98 chilogrammi ed era sano come un pesce.

il Fatto 15.5.12
La vita del testaccino
Renatino, l’uomo del Vaticano
di Rita Di Giovacchino

Quando rapì Emanuela Orlandi, Enrico De Pedis aveva appena 30 anni, quando è stato ammazzato 36, ma tutti lo consideravano già il capo della banda della Magliana. Anzi dei “testaccini”, il gruppo più potente e occulto della malavita romana, gente che a torto o ragione fa parte della storia d’Italia Nel suo libro di memorie Sabrina Minardi, l’ex amante che per prima lo ha accusato di aver rapito la ragazzina vaticana, spiega in modo esplicito il motivo di così mirabolante carriera: “Lo sapevano tutti che Renatino era l’uomo del Vaticano”. Cosa vuol dire per un boss essere uomo del Vaticano? Nessuno lo sa, ma De Pedis lo era. Qualcuno è tuttora convinto che fosse figlio del cardinal Poletti, il vicario di Roma assai vicino a Giulio Andreotti, proprio quello che venti giorni dopo la sua sciagurata morte a Campo de’ fiori firmò il nullaosta che gli ha consentito di riposare in pace nella cripta della chiesa di Sant’Apollinare. Nessuno riusciva a darsi altra spiegazione: Renatino era figlio di Poletti. Figlio no, forse affiliato. Di sicuro sentimenti paterni legavano il cardinale a quel ragazzo che don Pietro Vergari aveva conosciuto in carcere e con il quale, racconta Sabrina, si appartava a parlare per ore. Discorsi fitti, a bassa voce, come se tra i due ci fosse un’intesa che nessuno poteva condividere. Renatino si “presentava bene”, golf di cachemire e completi Caraceni. Non fumava, non beveva, sniffava raramente soltanto quando si chiudeva in casa con Sa-brina per fare l’amore.
Anche quel soprannome, Renatino, non aveva niente a che vedere con nomignoli come il Negro, Zanzarone, Saponetta. De Pedis, si atteggiava a manager, era davvero il Dandy descritto in Romanzo criminale da Giancarlo De Cataldo. Ad aiutarlo erano anche i lineamenti delicati, da ragazzo perbene, come appare nella foto che fino a ieri spiccava sulla sua tomba di marmo, incastonata in una corona di zaffiri. L’ingrandimento di una fototessera, la stessa che nel giugno 1983, subito dopo la scomparsa di Emanuela, fece sobbalzare il comandante del Reparto operativo di via Inselci, il colonnello Domenico Cagnazzo: assomigliava in modo sorprendente all’identikit dell’uomo della Bmw visto in corso Rinascimento due ore prima che la ragazzina sparisse. Ma Renatino non era figlio di Poletti, a dire il vero il padre lo chiamavano Caino perché aveva ammazzato il fratello e lui, che aveva la vocazione del capo, si era fatto carico della famiglia. Per fare qualche soldo si arrampicava con Fabiola Moretti, amante di Abbruciati e poi moglie di Mancini, sulle pendici del Gianicolo. Andavano a caccia di vipere da rivendere al farmacista di piazza della Scala. Con la droga e le rapine aveva comprato un ristorante a Trastevere, la boutique di Enrico Coveri, un’oreficeria all’Appio, un supermercato all’Ostiense, una villa in Sardegna, decine di appartamenti. In quello di via Vittorini all’Eur alla fine del 1984 fu arrestato.
Ci arrivarono pedinando la Minardi che viveva con lui, l’indirizzo era saltato fuori dalla causa di separazione tra lei e il calciatore Bruno Giordano. Poi tramite prestano-mi, anche il Jackie ‘O di via Veneto. Quando lo hanno ammazzato, per vendicare la morte di Edoardo Toscano, voleva uscire dal giro: ormai, grazie al racket dei video-poker, non aveva più bisogno di fare rapine. Renatino era entrato nel “gioco grande”, come lo definiva Giovanni Falcone: frequentava Calvi, il banchiere dagli “occhi di ghiaccio”, a organizzare feste e festini era quel suo amico sardo, piccolino, capace di intrufolarsi dappertutto, Flavio Carboni, l’uomo che oggi conosciamo come il capo della P3. Dicono che andava a cena con Paul Marcinkus, il presidente dello Ior caro a papa Wojtyla. Sabrina, irriverente, racconta di aver procurato ragazze all’aitante vescovo convinto che “non si serve la Chiesa soltanto con gli Ave Maria”. Racconterà poi che nel 2008 aveva accompagnato Renatino nella casa di Andreotti in Corso Vittorio. Ma la donna, ora indagata per il sequestro Orlandi, si sa non sempre è attendibile. Su, su, sempre più su: quella di De Pedis, di Emanuela, di Calvi è una storia incrociata. Storia di mafia, non di malavita, dietro le quinte c’era Pippo Calò, il siciliano venuto a Roma per risolvere i guai economici di Cosa Nostra. Guai grossi, 250 milioni di dollari scomparsi, consegnati al Vaticano e puff, volatilizzati. Che fine avevano fatto? La logica indica una sola strada: quella che dalle Mura Leonine conduce in Polonia, patria cara a papa Wojtyla, dove la battaglia di Solidarnosc avrebbe fatto cadere il governo Jaruzelsky. Se cadeva Jaruzelsky – Marcinkus ne era convinto – cadeva tutto il blocco sovietico. Il “gioco grande”. Ma a Cosa Nostra non piace farsi fottere, bisognava trovare una strada per arrivare al Vaticano. Forse Renatino gliel’ha indicata. Oppure qualcuno “ha indicato” a lui di rapire Emanuela. Un ricatto a Wojtyla? Una trattativa andata in porto? È l’unico vero mistero che custodiva quella tomba.

il Fatto 15.5.12
Dallo Ior a Mokbel. Ecco perché la banda è vuiva
Il “pentito” Antonio Mancini: “De Pedis? Oggi sarebbe in Parlamento
Delle nostre manovre tra mafia e Servizi il Pci allora sapeva tutto”
di Rita Di Giovacchino e Malcom Pagani

IO NON SONO BUONO, SÒ UN FIGLIO DE NA MIGNOTTA”. I capelli bianchi, gli occhi neri, due fessure pro-tette dagli occhiali. La biografia criminale di uno dei capi della Banda della Magliana riversata su nastro in un pomeriggio marchigiano di caldo, cicale e confessioni. Jesi è un silenzio. Un ordine irreale. Antonio Mancini, l’accattone, ci vive da 16 anni. Ai tempi in cui divideva proventi, cocaina e azioni con gli amici fascisti, Mancini sfiorava l’eresia. Leggeva Pasolini, prendeva la mira parafrasando Mohammed Alì: “Bumayè”, regolava conti, dominava Roma: “Ero un drizzatorti. Conquistavo zone, esigevo crediti, punivo gli insolventi. A San Basilio i nomi delle strade erano paesi delle Marche. Quando me sò pentito mi è venuto spontaneo indicà uno di quei posti”. Integrazione completata. Oggi Mancini è un uomo libero. Quindici anni di carcere. Condanne scontate. Nessuna pendenza. È seduto a casa sua. Immagini di Che Guevara, volumi di Marx, Bibbie, Vangeli. Da un computer le notizie sul ritrovamento dei resti di De Pedis a Sant’Apollinare. Di altre ossa: “Non sono di Emanuela Orlandi e tutta l’operazione è fumo negli occhi. Domani si potrà urlare «visto che il Vaticano non c’entra nulla? ». Perché non hanno aperto prima? Troppo champagne ubriaca e qualcuno, anche tra gli inquirenti, ha riempito i bicchieri fino all’orlo”. Nel tempo libero, quando i demoni di un passato incancellabile non tornano a fargli visita, Mancini aiuta i disabili. Loro non sanno. E lo adorano. “Un giorno vidi passare un pulmino pieno di ragazzini. Salutavano. Andai da Sebastianelli, il commissario di Polizia del luogo e lo pregai: ‘Mi dia una possibilità, sarei felice di fare il buffone per loro’. Lui garantì per me e adesso, quell’impegno è diventata la ragione della mia vita”. L’accento romano è imbastardito. I ricordi lucidi. La rabbia ancora giovane. “Sono anni che dico che la Magliana è viva. I magistrati mi danno retta a intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A domanda rispondo e se non so, sto zitto”.
Quante persone ha ucciso, Mancini?
Con la “bandaccia” tante. Prima, quando operavo a Val Melaina, ancora di più. Ogni volta che dovevo ammazzà qualcuno io dicevo “lo mandamo a salutà Adriano”. Era come una parola d’ordine.
Chi era Adriano?
Mio padre. Comunista tutto d’uno pezzo. Me diceva sempre “addavenì baffone”. Sotto lo studio di Lucio Libertini, il deputato, aveva messo le radici. Libertini gli aveva promesso una casa popolare. Noi vivevamo in otto in due camere. Ma baffone non arrivava mai e mio padre è morto senza avere un tetto. E io guardavo quelli con il Rolex e la Ferrari e mi ripetevo: “Mejo dù anni ar gabbio che stà in due camere con sei creature”.
Quale è l’omicidio che le è più rimasto impresso?
Quello di Nicolino Selis. Lui temeva di finire ammazzato, ma riuscimmo a fissare un appuntamento in una villa di Ostia. Gli dissero che ero uscito dalla Banda, che mi ero messo in proprio. E lui cadde in trappola. Scavammo la buca e lo aspettammo. Mi trovò seduto su un divano ed ebbe il coraggio di scherzare: “Accattò, ma che finaccia hai fatto”. Io mi girai e risposi: “non sai la fine che stai a fa te”. Un secondo dopo, Abbatino tirò fuori la baiaffa da una scatola di cioccolatini e gli sparò in testa. Poi presero la mira anche gli altri.
Pentimenti?
Affrontavo le curve a 300 all’ora ed ero convinto che sarei morto a 30 anni. Ho risparmiato gente che avrebbe meritato di morire e ucciso fratelli che si fidavano di me.
E le sembra normale?
Un mio amico studioso di sciamanesimo sostiene che in fondo non sia successo niente. Il mio è solo un percorso di vita. A 12 anni volevo dominare il mondo. Quando la cavalcata epica si è trasformata in una pozzanghera di sangue, ho detto basta. La mia prima figlia era cresciuta senza un padre, non volevo che con la seconda accadesse lo stesso.
Uccideva per i soldi?
Sono stato miliardario, ma il denaro l’ho sempre disprezzato. I soldi li ho avuti ma me li sò magnati tutti. Adesso sono rovinato, dormo in uno spazio grande come una cabina telefonica. Ci siete, potete valutare.
Quanti metri quadri?
Metri? Centimetri. Sono stato io a chiedere al Comune di vivere qui in periferia. Neri, gialli, rossi. Gente che ti suona alle due di notte. “Che c’hai una birra? ” Lo stagno mio.
“SI FACEVA CHIAMARE PRESIDENTE”
Ieri nuotava nella criminalità.
Come Renatino De Pedis, di cui oggi si parla tanto. Con lui ruppi nel momento in cui fece uccidere Edoardo Toscano e fui contento quando l’ammazzarono. Toscano, l’operaietto, componente della banda, era un mio amico.
De Pedis non lo fu mai?
Non era più un bandito, si era imborghesito. Oggi sarebbe in Parlamento. Dalla nuova banda che si era creato tra Tor Pignattara e Marranella si faceva chiamare Presidente.
Lo pretendeva anche da voi?
Io gli sputavo in faccia. Era entrato in un giro strano con Massimo Carminati, un fascista che oggi fa i miliardi con i ristoranti.
Sabrina Minardi - l’ex compagna di De Pedis - dice che tutti sapevano che Renatino era l’uomo del Vaticano.
E del Cardinal Poletti. Renatino fu accompagnato in Vaticano da Enrico Nicoletti e Flavio Carboni. Di suo, De Pedis non sapeva “accucchià” due parole in italiano. Ma era bello. Regale. Presentabile. Mi veniva a prendere la domenica, andavamo alla pasticceria Andreotti e poi al Bolognese. Quando parlava con il potente di turno o l’onorevole si inchinava. Io lo cazziavo e lui ribatteva: “Ah Nì, adesso mi inchino io, dopo si piegheranno loro”.
Che ruolo ebbe De Pedis nel rapimento Orlandi?
Guidò la macchina che servì al sequestro della ragazza. Il rapimento fu deciso da mafiosi e testaccini. C’erano soldi che non rientravano e la scelta era tra lasciare qualche cardinale a terra ai bordi della strada o colpire qualcuno che fosse vicino al Papa e che aveva rapporti economici con noi per marcare un segno. Scegliemmo la seconda strada.
Quanti soldi?
Più di duecento milioni di dollari che la banda aveva riciclato per lo Ior e che non aveva più rivisto dopo il crack dell’Ambrosiano. Ioe Danilo Abbruciati nell’81 andammo a Milano, per incontrare gente del Banco legata a Calvi e alla P2. A portare a Wojtyla la foto scattata in piscina a Castelgandolfo in cui lui era circondato dalle suore fu Gelli in persona. Tutto era legato.
Abbruciati morì nell’82, ucciso da una guardia giurata dopo il fallito attentato a Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano.
La guardia giurata non sparò mai e subito dopo scomparve nel nulla. Abbruciati non era uno sprovveduto. Lo ammazzò lo Stato, perché Danilo aveva visto troppo. Pensate che a Milano sarei dovuto andare io. Danilo si rifiutò: “Se viaggio io otteniamo più soldi”.
Perché proprio la Orlandi?
Ve l’ho detto. Il padre di Emanuela non era un semplice messo. Era molto di più.
L’ha mai detto ai famigliari?
Quando vidi Natalina, la sorella di Emanuela, negli studi di Chi l’ha visto? le dissi esattamente così. D’altronde Nicola Cavaliere, un bravo poliziotto, inascoltato, lo disse subito. “La Orlandi è legata ai soldi della Magliana”. I giudici lo ignorarono, nessun magistrato voleva un carico del genere. Ora hanno detto che mi chiamerà l’Antimafia. Sto qui, vado, non mi nascondo. Non ho paura di niente.
Non ha perso l’arroganza dei tempi d’oro.
Non è questione di arroganza, ma di verità. Quando decisi di collaborare per la prima volta erano presenti Otello Lupacchini e il questore Fiorelli. Fui chiaro: “Volete il mio aiuto? Non vi ho cercato io. Se lo volete sappiate che smonterò una a una le bugie di Abbatino”. Rimasero sorpresi.
Il libro di De Cataldo?
Un bufalificio. In Romanzo criminale ha scritto che disprezzavo Pasolini dandogli del frocio. “A De Catà, io leggevo Pier Paolo quando tu ancora non eri nato”.
C’è chi sostiene che la Magliana fosse anche dietro al caso Moro.
Certo, fummo noi a trovare il covo di Via Montalcini. Selis lavorava anche per Raffaele Cutolo e passò la dritta a Franco Giuseppucci, detto “er negro”. Fu lui a portare la notizia a Flaminio Piccoli. Si incontrarono carbonari, sotto un ponte, vicino aPiazza Cavour. Le Br erano completamente eterodirette dai Servizi, infiltrate dallo Stato.
Qualche storico ritiene che Moro a Via Montalcini non sia stato mai.
E invece c’era. Poi non so se sia passato anche a Palazzo Caetani o a Palo Laziale, come alcuni suggeriscono. Venni a sapere che le lettere di Moro e i video degli interrogatori erano stati presi da una ex amante di Danilo Abbruciati. Un’ex partigiana al soldo del Mossad. Danilo sul sequestro dello statista Dc sapeva tanto.
Furono esponenti della Banda della Magliana a sparare a Moro?
Possibile. Non mi meraviglierebbe. Noi, la Mafia, il Vaticano, la politica. Nicoletti gestiva i nostri soldi e quelli di Andreotti, contemporaneamente. Il resto dell’arco costituzionale, a iniziare dall’esponente antiterrorismo più in vista del Pci, sapeva tutto. C’erano rapporti con i socialisti. Si parlava spesso di un siciliano, un pezzo grosso. Uno che avevamo tra le mani, cui potevamo rivolgerci senza troppi problemi e dare disposizioni.
A proposito di Andreotti. Mancini cosa sa del caso Pecorelli?
Tutto. L’abbiamo ucciso noi e i siciliani. De Pedis aveva la pistola con cui era stato ammazzato. A finirlo andarono in tre. Angelo La Barbera e Massimo Carminati.
Il terzo?
Non lo dico, è un mio amico. Quando mi interrogarono il nome lo feci, ma aggiunsi: “Se lo verbalizzate non firmo neanche sotto tortura”.
Un fascista?
Non attacca.
“CI AVETE CHIESTO PECORELLI ”
Il vostro referente mafioso a Roma?
Con Pippo Calò andavo a mangiare, ma non mi piaceva. Noi della banda pippavamo, quelli erano sempre in doppio petto. De Pedis dormiva a Villa Borghese in un appartamento dei servizi segreti, la coca stravolgeva molti ambiti. E la Magliana li controllava tutti. Facevamo riunioni con i vertici di Carabinieri e Polizia, con i servizi segreti, con chi ci avrebbe dovuto arrestare.
Frequentavate anche gente dello spettacolo?
L’attrice Gioia Scola stava sia con Paolo Berlusconi che con un amico mio. Quando andai a riferirlo in Procura, al nome di Paolo Berlusconi, il magistrato spense il registratore. Neanche Silvio, Paolo. Vi rendete conto? Sputtanare Gioia Scola andava benissimo, Paolo Berlusconi spaventava.
Cosa sa della strage di Bologna?
Furono i fascisti manovrati dallo Stato. Forse gente intorno a Delle Chiaie, forse il gruppo di Massimiliano Fachini. Non Fioravanti e in ogni caso, qualcun altro della Banda intervenne in un secondo tempo allo scopo di depistare.
Chi Mancini?
Massimo Carminati. Un fascista che teorizzava l’ordine nel disordine. Anarcofascisti si facevano chiamare. “Noi uccidiamo il potere” urlavano. Mortacci loro.
Ha le prove per dirlo?
Se sarò chiamato a fornirle, le darò.
Pensa mai alle vittime?
Se è per questo anche ai carnefici. Alla P2. Con Ab-bruciati che come Giuseppucci, con i servizi aveva rapporti solidi, andavo nell’ufficio di Ortolani in Via Bissolati. Incontravo Luigi Cavallo, che voleva ancora fare il golpe e diceva di essere amico di Sin-dona. Noi volevamo salvare Francis Turatello, tirarlo fuori dal carcere e ai nostri interlocutori milanesi dell’Ambrosiano e ai piduisti l’avevamo detto chiaramente: “Ci avete chiesto Pecorelli e Moro e noi abbiamo rispettato i patti. Adesso tocca a voi”.
Ma Turatello morì a Badu ‘e Carros nell’agosto 1981 in modo atroce.
Un dolore enorme. Dicono che l’abbia ucciso Pasquale Barra sventrandolo e mangiandogli il cuore, ma è una cazzata. Barra prese quattro schiaffi, gli esecutori furono altri e l’ordine di far fuori Francislo diede Luciano Liggio in persona. Francis riceveva lettere dai politici. Lo chiamavano capo.
Per sparare ai fratelli Proietti nell’81, lei in Via di Donna Olimpia a Roma improvvisò un Far West.
Marcellone Colafigli era ossessionato dalla morte di Giuseppucci. Dormivamo nella stessa casa e a volte, di notte, si svegliava. “Nino, er negro è uscito dal televisore. Continua a ripete ‘na frase”. Allora io lo assecondavo. “Che frase? ” E lui: “Ahò, ma nun me vendicate mai? ”. Proietti era un ricattatore, bisognava farlo.
PALLOTTOLE, MICA PRANZI DI GALA
Impressiona sentirglielo dire.
Lo capisco, ma la mia vita non è stato un pranzo di gala. Ho incontrato infami ec ornuti. Ho sparato, ucciso e sempre saputo che un colpo poteva ammazzare anche me. Quando te tocca te tocca, è inutile che ti guardi le spalle. Se arriva, arriva.
A De Pedis, nel ’90, arrivò.
De Pedis era un cacasotto. Avrebbe dovuto morire prima, durante una pausa del processo. Colafigli che non gli aveva perdonato l’omicidio di Edoardo Toscano fremeva. Aveva preparato il laccio nel furgone dei Carabinieri. Era livido: “Stamattina je tocca”. Lo fermai io. Fabiola Moretti, la mia ex compagna scrisse a Renatino: “Se te vuoi salvà mettite vicino a Nino”. Lui eseguì, spaventatissimo. E io lo sfottevo: “Stà buono, non sudà”. Forse così scemo non ero.
Pazzo?
Quando dividevo l’abitazione con Pasquale Belsito, un neofascista, lo vedevo sempre giocare con le bombe a mano. Io e Colafigli pippati di cocaina come scimmie eravamo terrorizzati. Se essere pazzi assomiglia a un’esistenza così, sì, lo sono stato. Mi sono anche divertito. Con Abbruciati andavamo a donne. A volte, sul più bello, lo baciavo in bocca, così per creare un diversivo. Ve li immaginate due delinquentoni come noi impegnati a scandalizzare le ragazze?
La banda oggi?
Quando ho visto la foto di Mokbel (l’imprenditore romano che avrebbe supportato l’elezione al Senato di Nicola Di Girolamo, ndr) sul giornale mi è preso un colpo. Gennaro era il mio guardaspalle. Con Roberto D’Inzillo mi veniva a prendere in moto ogni mattina. Ha fatto sue le tecniche della banda, ma il più pericoloso, il vero capo di Roma, è un altro.
Chi?
Una nostra vecchia conoscenza uscita sempre indenne dai processi. Andate a controllare e troverete il nome.
Come Flavio Carboni all’epoca della Magliana?
Non fatemi ridere. Carboni era patetico. Si travestiva con tacchi e parrucchino e faceva affari con Berlusconi. La prima volta che lo vidi però provai un sollievo assoluto. Se questo è il famoso Carboni, su Roma e sull’Italia comanderemo per tutta la vita.
C’è una morale in tutto questo?
Ho sempre diffidato delle morali e non sarei comunque la persona più adatta. Forse però aveva ragione Domenico Sica, l’ex alto commissario antimafia. Era certo che la Banda fosse più potente di Cosa Nostra e dei Servizi messi insieme. Non credo avesse torto.

Corriere 15.5.12
«Ora serve la verità» Da Bellocchio a Cavani si schierano i registi
di F. Pe.

ROMA — «Basta trame oscure e segreti di Stato: è ora di far emergere tutte le verità, soprattutto quelle più scomode». Il mondo del cinema, su impulso del regista e produttore Renzo Rossellini, che negli anni Settanta fu fondatore delle radio libere e poi presidente della «Gaumont Italia», si mobilita a fianco della famiglia Orlandi. Nei giorni scorsi Renzo, il primo figlio oggi settantenne del maestro del neorealismo, ha posto la prima firma sotto un «Manifesto per la verità su Emanuela Orlandi» che ora sta intasando la posta elettronica di produttori, registi, sceneggiatori e, più in generale, esponenti della cultura e dello spettacolo.
Il breve testo inquadra il rapimento della figlia del messo pontificio nella politica internazionale degli anni 80. «Ci associamo alla richiesta della famiglia Orlandi per la verità e la giustizia in relazione alla scomparsa della loro congiunta Emanuela — è la premessa — e auspichiamo che Stato italiano e Vaticano (ognuno nell’ambito delle proprie istituzioni e prerogative) collaborino con trasparenza e vigore per arrivare a un rapido accertamento dei fatti e, ove possibile, all’individuazione dei responsabili del sequestro, a tutti i livelli».
L’invito è dunque a ricercare non solo gli esecutori materiali del «prelevamento» della ragazzina quindicenne (secondo l’ultimo filone d’indagine eseguito da esponenti di secondo piano della banda della Magliana), ma anche gli ipotetici mandanti. Concetto chiarito nella frase conclusiva del «Manifesto»: «L’Italia dopo troppi decenni di trame oscure ha bisogno di liberarsi delle ombre del suo passato, per guardare con rinnovata fiducia al proprio futuro».
Tra i firmatari dell’appello figurano i registi Marco Bellocchio, Francesca Archibugi, Liliana Cavani e Valerio Jalongo, il critico Enrico Ghezzi, l’editore Giulio Savelli, il produttore Domenico Procacci e la scrittrice Lidia Ravera. «Cultura e democrazia devono camminare insieme. Basta con misteri e trame», dice Rossellini, il cui lavoro più recente sul versante dell’impegno civile è stato il documentario sulla mafia «Diritto di sognare», girato nel 2006.
Ma perché scegliere proprio il caso Orlandi come emblema di tutti gli intrighi? «Il sequestro di una ragazzina con cittadinanza vaticana come Emanuela — risponde il produttore — si inquadra in un contesto molto preciso: quello di un possibile ricatto al Vaticano negli ultimi bagliori della guerra fredda e alla vigilia della caduta del muro di Berlino, alla quale Giovanni Paolo II diede un contributo decisivo. Non dimentichiamo i due tentativi di assassinare il papa polacco e nemmeno Alì Agca e i successivi processi, il ruolo avuto dai servizi segreti sovietici e la mancata individuazione di complici nell’attentato a San Pietro. Così come non dimentichiamo i rapporti tra il Banco Ambrosiano di Calvi e lo Ior, i soldi sporchi della mafia, l’omicidio Ambrosoli e l’avvelenamento di Sindona».
La ricostruzione di Rossellini coincide a grandi linee con il filo rosso dell’inchiesta seguito dai magistrati nella prima fase: 1981, attentato al Papa; 1982, morte di Calvi a Londra; 1983, sequestro Orlandi. Uno scenario da «grande complotto» che sta rimbalzando anche sulla stampa estera: «Emanuela, il Vaticano e i malavitosi: sembra un romanzo di Dan Brown e invece è realtà», ha titolato nei giorni scorsi il giornale belga Le Soir. «La storia del mondo, con la sua successione di fatti più o meno comprensibili, come tale è anche cultura. Ecco perché — conclude il produttore — è giusto schierarsi con Pietro Orlandi, alla ricerca di queste verità scomode».

Repubblica 15.5.12
Giancarlo De Cataldo, autore di "Romanzo criminale" è scettico sulla possibilità di ritrovare nella chiesa i resti di Emanuela
"Ma dopo vent´anni su quella banda ancora troppi depistaggi e coperture"
di Massimo Lugli

Restano segreti i contatti con molti apparati dello Stato e della finanza. La forza della gang è derivata anche dalla guerra fredda

ROMA - «La banda della Magliana ha ancora dei segreti da svelare. In particolare i rapporti tra la fazione dei Testaccini e molti ambienti insospettabili. Misteri che, dopo oltre vent´anni, sono ancora celati da depistaggi e coperture».
Misura le parole Giancarlo De Cataldo, magistrato e romanziere di culto, la penna che ha creato "Romanzo Criminale"e dato vita all´interminabile saga dei "Bravi raqazzi", tra gli anni ´80 e ´90, conquistarono Roma a colpi di pistola, mitra e insospettabili alleanze. Film, fiction, romanzi che prendono spunto dalla realtà ma troppo spesso decollano su piste totalmente improbabili. E l´apertura della tomba di Enrico De Pedis, alias "Renatino", alla ricerca dei resti di Emanuela Orlandi era sembrata a molti un copione poco credibile. Lo stesso De Cataldo, con tutta la sua cautela di uomo di legge, non aveva mai nascosto il suo scetticismo.
Avrebbe ipotizzato uno sviluppo del genere in un romanzo?
«No. Se l´avesse scritto Dan Brown avrebbe venduto milioni di copie ma i lettori di un autore italiano avrebbero fatto spallucce. Era, obiettivamente, molto improbabile che i resti di una ragazza scomparsa finissero in una basilica anche se bisogna, doverosamente, aspettare l´esito di tutti gli accertamenti».
La banda della Magliana avrebbe potuto usare la tomba del boss come cassaforte per qualcosa di compromettente?
«Difficile. La gang della Magliana non aveva alcuna disposizione per la ritualità tanto cara a molte organizzazioni criminali, anzi, si prendeva gioco di certe tradizioni come la "punciuta" o altri riti di affiliazioni. La sua forza stava anche in questo. Il suo metodo era lineare: se qualcuno si metteva di traverso lo facevano fuori, tutto qui».
Ma il fatto che "Renatino" sia stato sepolto proprio a Sant´Apollinare è un mistero inquietante...
«Mi risulta che la famiglia di De Pedis abbia pagato una certa somma per la sepoltura nella chiesa. Non c´è nulla di strano visto che sono molto religiosi e che anche lui lo era».
Malavitoso e credente?
«Succede in tutto il mondo. Dal camorrista col santino di padre Pio nel bagagliaio imbottito di cocaina al narcotrafficante con l´immagine della Madonna sul calcio del mitra».
Della Magliana sappiamo quasi tutto, ma di Emanuela Orlandi?
«No, della gang della Magliana si sa molto ma non tutto. E in particolare restano segreti i contatti con molti apparati dello Stato e della finanza, alleanze che i Testaccini, e in particolare Enrico De Pedis erano bravissimi a stringere. In quegli anni molti ambienti, a tutti i livelli, erano ossessionati dalla paura del comunismo ed erano disposti a rivolgersi a chiunque per allontanare questo spettro. Credo che la forza della banda della Magliana sia derivata anche dalla guerra fredda ma è singolare che a 20 anni dalla caduta del muro ci siano ancora coperture e depistaggi. Anche questo rende il nostro Paese meno credibile».
Sull´apertura della tomba c´è stato un braccio di ferro tra procura e squadra mobile, lei cosa ne pensa?
«Non mi risulta. Le indagini sono coordinate dal procuratore, che dirige anche la polizia giudiziaria, e si cerca di dare una risposta alla sete di verità anche quando si tratta di casi molto lontani nel tempo».
Come l´Olgiata e via Poma. Il primo risolto, il secondo finito con un´assoluzione in corte d´Assise d´Appello, dove lei era giudice a latere. E Emanuela?
«Sulla scomparsa di Emanuela Orlandi c´è un´inchiesta in corso e non mi pronuncio, io appartengo alla magistratura giudicante, non inquirente. Posso dire tranquillamente che le nuove tecnologie offrono ottime possibilità investigative ma non miracoli. Quelli non avvengono mai».
Ha in programma un nuovo libro sulla banda della Magliana?
«Beh, diciamo che sto lavorando a un romanzo. E che torneranno personaggi già visti». Come in tante inchieste a puntate che non finiscono mai.