Massimo Fini, il Fatto Quotidiano 12/5/2012, 12 maggio 2012
MA QUALI FRATELLI D’ITALIA?
Ogni volta che sento l’inno di Mameli son preso da convulsioni. “Fratelli d’Italia”. Fratello di chi? Di Giuliano Ferrara, tanto per fare un nome a caso, che l’altra sera nella sua spudorata Radio Londra tuonava contro i faziosi e “la faziosità che ottunde l’intelligenza”, di Angelo Panebianco, di Ernesto Galli della Loggia, di Napolitano, di Napoletano, dei napoletani ‘disoccupati organizzati’ (li ho seguiti per vent’anni, erano sempre gli stessi, ben vestiti, manifestavano per un paio d’ore in piazza Municipio strillando “fateci faticà” – ma dai – poi giravano l’angolo e salivano su una Bmw, oggi ci saranno i loro figli – la prossima volta voglio rinascere ‘disoccupato organizzato’, a Napoli), dei Fabrizio Cicchitto, degli Eugenio Scalfari, dei Ferdinando Adornato, dei Massimo D’Alema, dei Walter Veltroni o di quel ‘grillino che è in me’, così splendidamente descritto da Marco Travaglio, che li ricomprende tutti? Se ne avessi il destro li sbudellerei, con tranquilla coscienza, sicuro di non commettere un fraticidio. “Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte!”. Ma va là. Questo può valere per qualche gruppuscolo di preitaliani (l’Inno di Mameli è del 1847), non per gli italiani propriamente detti, salvo singole, rare e per questo ancor più ammirevoli eccezioni (Salvo d’Acquisto, Fecia di Cossato, Durand de la Penne) che non fan certo ‘coorte’. I ‘Fratelli d’Italia’ han fatto due guerre e tutte e due le volte le hanno cominciate da una parte e finite dall’altra, quella dei vincitori. Nella seconda con quell’alleato non bisognava allearsi, ma è troppo comodo, troppo facile, quando, in una lotta per la vita e per la morte, si profila la sconfitta pugnalarlo alle spalle facendo anche della giornata della vergogna, l’8 settembre, una festa nazionale. Ma forse è giusto così perché quella festa rispecchia il carattere dei ‘Fratelli d’Italia’, più che del popolo, delle sue classi dirigenti così ben descritte da Curzio Malaparte in una pagina magistrale de ‘La rivolta dei santi maledetti’ quando a Caporetto i fanti-contadini, stufi di farsi massacrare in omaggio alla teoria omicida dell’attacco frontale del generale Cadorna, ruppero le righe: “Fuggivano gli imboscati, i comandi, le clientele, fuggivano gli adoratori dell’eroismo altrui, i fabbricanti di belle parole, i decorati della zona temperata, i cantinieri, i giornalisti, fuggivano i napoleoni degli Stati Maggiori, gli organizzatori delle difese arretrate, i monopolizzatori dell’eroismo degli angoli morti e delle retrovie, decisi a tutto fuorché al sacrificio, fuggivano gli ammiratori del fante, i dispensatori di oleografie e di cartoline illustrate, gli snob della guerra, gli ‘imbottitori di crani’, gli avvocati e i letterati dei comandi, i preti del Quartier Generale e gli ufficiali d’ordinanza, fuggivano i ’roditori’ della guerra, i fornitori di carne andata a male e di paglia putrefatta, i buoni borghesi quarantotteschi che non volevano dare asilo al fante perché portava in casa pidocchi e cenci da lavare e parlavano del Re come del “primo soldato d’Italia”, fuggivano tutti in una miserabile confusione, in un intrico di paura, di carri, di meschinerie, di fagotti, di egoismi, e di suppellettili, fuggivano tutti imprecando ai vigliacchi e ai traditori che non volevano più combattere farsi ammazzare per loro” (un tempo esistevano ancora dei giornalisti). Spiace per Goffredo Mameli, che sognava l’Italia unita e coerente con le sue idee e con ciò che scrisse, morì giovanissimo, a soli ventidue anni, in battaglia, ma questo ritratto impietoso vale per i ‘Fratelli d’Italia’ di ieri e soprattutto per quelli di oggi.