Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 12/5/2012, 12 maggio 2012
LA LETTERA DELLA BCE, LA VERA STORIA DEL DOCUMENTO CHE DOVEVA SALVARE B.
Basta leggere la lettera della Bce per capire che è stata scritta a Roma. Quella lettera è un passaggio politico di grande rilievo che entra nella sovranità di un Paese”, ha buttato lì l’ex ministro del Tesoro Giulio Tre-monti durante la puntata di Servizio Pubblico di giovedì sera. “E qualcuno l’ha chiesta, dentro il governo e non solo, c’era un certo tifo per quel tipo di intervento a vari livelli. L’attuale presidente del Consiglio ha detto in Parlamento: ‘non starei in un governo che chiede una lettera’ e in modo inglese stava facendo capire che quella della Bce è stata richiesta da quello precedente”, allude, dice e non dice, ma Tremonti invita a rileggere la storia di quel documento che ha cambiato molto. Perché tutto cominciò da lì. E lì bisogna tornare ora che, dopo sei mesi, si può cominciare a guardare con l’oggettività della distanza alla nascita del governo Monti.
L’ultima chance per B.
La lettera della Bce, il programma di emergenza firmato da Mario Draghi e Jean Claude Trichet che ha prima accompagnato Silvio Berlusconi alla porta e poi ha dato le basi per l’azione dei tecnici. Nella vulgata giornalistica la lettera è diventata la condanna a morte del governo Berlusconi, secondo quanto ha ricostruito il Fatto Quotidiano, grazie al racconto di alcune delle persone coinvolte, quel documento era invece l’ultimo tentativo di rendere accettabile ai mercati un esecutivo screditato, ridimensionando la probabilità di una crisi politica che all’epoca, nell’estate 2011, poteva dare il colpo finale alle finanze del Paese.
Una lettura critica della storia della lettera deve partire dal 4 agosto, dalla conferenza stampa convocata a sorpresa in cui il governo Berlusconi ammette di dover riscrivere la manovra di luglio giudicata inadeguata dai mercati, anticipando al 2013 il pareggio di bilancio previsto in origine per il 2014 (ma con oltre 20 miliardi di interventi rinviati a dopo la fine della legislatura). I giornali liquidano come un “siparietto” l’educato ma violento dialogo tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia accenna ai contatti del governo avviati con diverse istituzioni finanziarie per discutere insieme le misure da adottare, e cita l’Ocse e il Fondo monetario internazionale, “Noi saremo attivi aprendoci al confronto con queste istituzioni internazionali”. Berlusconi lo interrompe aggiungendo: “Anche la Bce”. Tre-monti lo guarda stupito, con l’espressione di chi pensava che il Cavaliere, alle prese in quel periodo con le vicende bunga bunga, avesse solo una vaga idea di cosa fosse la Banca centrale europea. “Credo sia molto importante, ma non coinvolgibile in questa fase”, precisa il ministro, pensando a quanto Francoforte tenga alla sua indipendenza dai governi e viceversa. E Berlusconi, sibillino: “Ma in-formabile sì”.
Il negoziato segreto.
Tremonti
non insiste. Ma
al ministro suona
bizzarro: in quei
giorni il Cavaliere è già un paria per i partner europei, Tre-monti è rimasto l’unico ambasciatore del governo nei consessi internazionali, con una mossa di immagine e di sostanza ha appena avvicinato John Lipsky, allora vicedirettore generale del Fmi in procinto di lasciare il suo posto a Washington. Lipsky doveva diventare un superconsulente, anello di congiunzione con il Fmi di Christine Lagarde che Tre-monti aveva individuato all’inizio dell’estate come la sponda adatta nei mesi difficili dello spread. Invece sorpresa: Berlusconi trattava con la Bce di Mario Draghi, da sempre poco in sintonia con Tremonti (il cui ultimo libro, Uscita di sicurezza è un lungo atto d’accusa implicito a Draghi).
La lettera della Bce “arriva” al governo il 4 agosto (e, a quanto risulta al Fatto, è arrivata in simultanea a palazzo Chigi e al Tesoro). Raccontano diverse fonti, quel documento è stato elaborato più a Roma che a Francoforte e l’ordine delle firme in calce, Mario Draghi, Jean Claude Trichet, non è soltanto alfabetico. Certo, anche alla Bce ci sono monitoring team che sanno quanto via Nazionale delle cose italiane. E le richieste della lettera non erano molto diverse dai punti principali delle considerazioni finali di Draghi, a fine anno (e dalle richieste dei mercati). Ma il documento è frutto di un negoziato che si svolge a Roma. Ci lavorato l’altro cervello economico del governo berlusconiano, Renato Brunetta, che oggi oppone un drastico “Non ho niente da dire, ho scritto tutto nelle mie slide”, alludendo alle corpose presentazioni che manda con cadenza settimanale ai giornalisti per commentare l’attualità. A ben guardare, Brunetta ha fatto il suo coming out, sul Foglio, il primo di ottobre: “Ora che la lettera della Bce è divenuta pubblica posso smettere di nascondere la mia reazione quando la lessi: i signori della Bce hanno ragione, i loro suggerimenti sono il nostro programma”. E nella conclusione dell’articolo che argomenta come la lettera “annienta gli avversari del governo”, Brunetta scriveva: “In quella missiva, quindi, più che l’intimazione a cambiare rotta c’è, per il governo, la pressante richiesta di procedere più speditamente. E di farlo nella direzione fin qui intrapresa”. Così veniva vissuta, in quell’ala del governo, ciò che ad altri pareva commissariamento internazionale: un’assicurazione che permetteva a Berlusconi di sopravvivere.
La pausa di Monti
Ma torniamo ai giorni cruciali di agosto. L’8 agosto il Corriere della Sera rivela i contenuti della lettera che qualcuno, c’è chi dice Draghi chi Tremonti, ha allungato a via Solferino: privatizzazioni dei servizi pubblici locali, liberalizzazioni, riforma del lavoro con intervento sull’articolo 18, e una riforma della Pubblica amministrazione, punto questo che sembra una firma di Brunetta che certifica il suo coinvolgimento (tipicamente brunettiano il passaggio “negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l’uso di indicatori di performance”). In cambio, anche se non si può esplicitare il do ut des, la Bce comprende buoni del Tesoro italiani sul mercato secondario per ridurre lo spread e quindi i rendimenti, cioè il costo. È il Securities Market Program che, forzando un po’ i limiti del mandato della Bce spingerà alle dimissioni il membro tedesco del board Jürgen Sark. Il giorno prima della rivelazione dei contenuti della lettera, quasi a darvi l’imprimatur, il Corriere pubblica un editoriale del professor Ma-rio Monti: “Il podestà forestiero”. La frase importante è questa: “Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l’ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un’Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un ‘governo tecnico’”. Quindi: “Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un ‘governo tecnico sopranazionale’ ”. É il segnale a un certo mondo che l’operazione governo tecnico è sospesa. O meglio, delegata a Draghi. Così da salvare – come nota Monti – almeno nelle forme la sovranità italiana. E soprattutto rimandare la caduta di Berlusconi di cui nessuno, allora, era in grado di prevedere le conseguenze.
Come aveva rivelato Fabio Martini su La Stampa il 24 luglio, infatti, l’idea che il premier lo dovesse fare Monti era già condivisa in ambienti influenti. In una riunione lunedì 18 luglio, nella sede della banca Intesa Sanpaolo, ci sono Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza, l’editore di Repubblica Carlo De Bendetti, Romano Prodi, il banchiere vaticano Angelo Caloia e il futuro ministro Corra-do Passera, allora capo azienda di Intesa. Monti, come suo stile, si mette a disposizione ma soltanto nel caso ci sia un consenso generale dietro il suo nome, non vuole imporsi ma essere imposto. Poi la lettera Bce offre un’ultima chance a Berlusconi. Sappiamo come è finita.