Alessandro Piperno, la Lettura (Corriere della Sera) 12/05/2012, 12 maggio 2012
IL MIO SEGRETO TRIESTINO
Non amo i romanzi di avventura. Non sono mai riuscito a terminarne uno. Stevenson mi annoia, per non dire di Verne. Persino il grande Conrad mise a dura prova i miei nervi infantili.
Capisco che il mio aspetto sedentario possa autorizzare chiunque a immaginarmi precocemente invischiato con carta, inchiostro, fumanti tazze di tè. La verità è che a dodici anni sguazzavo nel tiepido mare dell’analfabetismo di ritorno. I miei sogni di gloria, del tutto convenzionali, si esaurivano in qualche prodezza calcistica o canora.
Così oggi mi ritrovo a invidiare i miei colleghi che, intervistati sulle prime letture, possono aprire cassetti pieni di corsari, fantasmi, principesse... In quanto ai miei di cassetti, be’, sarebbero vuoti se non potessi contare sulla storia che vi sto per servire: l’avventurosa storia che fece di me un sentimentale lettore di romanzi seri.
Galeotto fu l’amore.
Ero al primo anno delle medie quando scoprii quanto avvincente e drammatico potesse essere un amore non corrisposto. Vi risparmio i dettagli sulla volubile ragazzina e sui miei patimenti di teenager. Vi basti sapere che lei si chiamava Viola e che alla fine del tunnel in cui mi aveva infilato avevo trovato ad attendermi un altro tunnel talmente pesto e profondo da farmi dubitare che vivere fosse una cosa sana.
Un giorno decisi di smettere di mangiare. Uno sciopero della fame in piena regola. Come quelli di Gandhi, con la differenza che lui protestava contro la protervia degli inglesi; io, in modo più saccente, contro la gratuità dell’universo.
All’undicesima ora di digiuno (a conti fatti avevo saltato un pasto), mio padre irruppe nella mia stanza. Evidentemente era stato informato da mia madre che, dopo aver saltato il pranzo, ero intenzionato a saltare anche la cena. Malgrado fossi fiaccato dal languore degli innamorati, e dai morsi della fame, ero deciso a difendere quella che a tutti gli effetti mi sembrava una posizione politica. Lui non mi parlò di cibo, né osò minacciarmi. Si limitò a poggiare un libro sul comodino. «Leggilo» disse.
Che sciocchezza! L’idea che una cosa pallosa come un libro potesse liberarmi del grumo di desiderio frustrato che mi strozzava l’esofago mi sembrava un insulto. Tuttavia c’era un non so che di familiare nel ragazzino in copertina. Oggi so che si trattava di un quadro di Modigliani intitolato Il figlio del portinaio. Eppure nessuna delle cose che so oggi è in grado di restituirmi l’empatia che mi colse alla sprovvista la prima volta che incrociai quel mesto sguardo di ragazzo. Tutto mi accomunava a lui: solitudine, indolenza, inessenzialità.
Il libro si intitolava Il segreto. L’autore era anonimo. Per la precisione Anonimo Triestino. Una specie di inno al mistero. Oh, ecco finalmente un mistero attraente. Il mistero di quel ragazzino senza nome con un segreto da custodire, ovvero il mio stesso mistero, il mio stesso segreto.
L’introduzione di Linuccia Saba iniziava così: «Qualche anno fa, in uno dei piccoli, famosi caffè, rifugio e abitudine dei triestini, e nei quali si usava trovarsi con gli amici (...), in uno di questi locali lungo la riva del mare, mi davo spesso appuntamento con un mio vecchio amico, vecchio di anni e amico da sempre (uno di quegli amici che ci fanno sentire, come la famiglia, ancora un po’ bambini e che si ritrovano solo nelle nostre città natali, e ai quali si dà del lei mentre loro ci danno del tu). Era un uomo affascinante, solitario, timido e appassionato, aperto, generoso e schivo».
Doveva essere lui l’uomo senza nome cui alludeva il titolo. Il ritratto che ne faceva Linuccia Saba mi metteva addosso una strana inquietudine. Come se una parte di me capisse tutto l’ostinato riserbo di quel vecchio signore.
Ve la faccio breve. Il tizio affascinante e solitario accompagna Linuccia Saba alla stazione e prima di lasciarla andare le dice che ha scritto un romanzo. E aggiunge: «Nessuno lo ha mai letto, e nessuno, me vivo, lo leggerà. Ma quando sarò morto vorrei che tu lo leggessi e, se pensi che ne valga la pena, fallo vedere a un editore. Ma devi promettermi che non dirai mai a nessuno, per nessun motivo, che l’ho scritto io». Così Linuccia, un po’ delusa dalla melodrammatica richiesta, promette, se ne riparte per Roma e dimentica la faccenda. Fino a quando, pochi mesi dopo, non riceve il manoscritto del vecchio amico, insieme alla notizia della sua morte. Lo legge, lo trova sensazionale, lo fa pubblicare da Einaudi e maledice se stessa per essersi lasciata estorcere l’incauto giuramento.
Tutto il turbamento che mi comunicò questa introduzione non era niente a confronto del terremoto emotivo prodotto in me dalla dedica del libro e dal suo incipit.
«A Bianca, nel cui costante pensiero le ho scritto, dedico queste pagine, perché si meravigli, e sorrida di tanta fanciullaggine, e provi forse un po’ di rimpianto».
Se oggi, nel trascriverla, mi colpiscono soprattutto la sintassi macchinosa e il lessico ottocentesco, la prima volta che la lessi mi bastò sostituire al nome Bianca quello della mia volubile amata (una sostituzione non troppo difficile visto che anche il suo nome era un colore), per sentire il groppo in gola premere fin quasi a soffocarmi di commozione. Ero certo di essere il solo uomo sulla faccia della terra che potesse capire una dedica del genere. Così romantica, così nostalgica, così piena di magnanimità. Ma allo stesso tempo così subdolamente ricattatoria!
L’attacco del libro, invece, era decisamente autocelebrativo: «Non c’è dubbio: io fui un bambino precoce». Possibile che quest’uomo mi avesse letto dentro così bene? Fu la prima volta nella mia vita in cui provai risentimento per un autore che mi aveva rubato l’idea per un romanzo. Molti anni dopo, all’università, sarebbero stati parecchi i professori che avrebbero cercato di inculcarmi due principi fondamentali per leggere un libro:
1) Non identificarsi mai con i personaggi.
2) Non confondere mai la vita del Narratore con quella dell’Autore.
Fu l’Anonimo Triestino a donarmi l’antidoto per resistere al veleno di quei dogmi così assennati e meschini.
Per me allora non ci furono dubbi: il romanzo d’amore dell’Anonimo Triestino con la sua Bianca e il mio con Viola erano due gocce d’acqua. La sola differenza è che lui l’aveva già vissuta, scritta e digerita. Io ero ancora alle prime scaramucce. Il segreto non era altro che la vicenda nevrotica di un ragazzo sensibile e precoce che si innamora di una ragazza sui banchi di scuola e per tutti e cinque gli anni di liceo non riesce a dirglielo. Non ero certo sorpreso che dopo una storia del genere il tizio si fosse trasformato in un vecchio solitario, uno scrittore di romanzi anonimi. D’altra parte ero contento che quel romanzo fosse diventato un bestseller. Il riscatto postumo dell’Anonimo Triestino mi sembrava davvero una gran bella cosa.
Grazie al cielo mi tornò l’appetito e con esso la voglia di vivere. Concepii un piano temerario. Regalai a Viola il romanzo. Ne fu molto stupita tenuto conto che ci eravamo rivolti la parola un paio di volte in tutto. Non arrivò oltre pagina 40. Mi disse che era troppo pesante, troppo deprimente. Imparai un altro paio di lezioni:
1) Mai regalare libri amati a persone amate.
2) Diffidare dei lettori che si deprimono.
Fu di certo allora che nacque in me una morbosa curiosità nei confronti dell’identità dell’Anonimo Triestino. Non avevo motivi di dubitare della veridicità dei fatti narrati da Linuccia Saba. Cominciai a investigare. Interrogai diverse persone (a cominciare da mio padre). Nessuno ne sapeva niente. Feci anche una telefonata a «Il Messaggero» per chiedere se Linuccia Saba fosse ancora viva. Mi dissero che lì non lavorava nessuna che si chiamasse così. Scrissi all’Einaudi. Da bravo editore non rispose. Finché me ne feci una ragione. Non avrei mai saputo il nome dell’Anonimo Triestino.
Ultimo anno di liceo. Sono nella casa al mare di un mio compagno. È notte fonda. Dovrei già dormire da un pezzo nella stanza che mi è stata destinata ma non la smetto di rigirarmi nel letto. Inutile combattere. Accendo l’abat-jour e mi metto a curiosare nei cassetti (una delle mie occupazioni preferite in casa d’altri). Purtroppo il bottino è modesto: un libro (assai malconcio) di storielle ebraiche. Via, meglio di niente. Non senza tedio inizio a leggere il saggio introduttivo pieno di triti cliché sull’ironia ebraica... Ma ecco che vedo apparire questa frase meravigliosa: «Senza naturalmente dimenticare quel capolavoro tardo: Il segreto dell’Anonimo Triestino (alias Guido Voghera)».
Avevo un nome. Finalmente dopo un sacco di tempo avevo un nome.
All’epoca non esisteva ancora Google ma almeno c’erano le biblioteche. Tornato a Roma mi chiusi alla Nazionale e cercai avidamente altre opere di Guido Voghera o almeno qualcuno che scrivesse di lui. Niente. Di Voghera ce n’erano parecchi ma nessun Guido. Anche stavolta me ne feci una ragione. E in una parte remota di me stesso ne fui anche felice: ero contento che l’Anonimo Triestino rimanesse fedele a se stesso. La sua storia, persino molti anni dopo averla incontrata, continuava a sembrarmi a dir poco esemplare di ciò che uno scrittore dovrebbe fare: scrivere e scomparire. Vendicarsi dal mondo delle ombre con encomiabile discrezione.
Passano altri anni. Frattanto sono diventato (anche per l’influenza mefitica dell’Anonimo Triestino) una di quelle sbiadite figure che la nostra società produce industrialmente: un aspirante scrittore con velleità accademiche. Un giorno ritiro in libreria i testi per un esame di Letteratura italiana. Mi siedo a un tavolino di un bar e do un’occhiata ai libri. L’attenzione viene subito rapita dal cognome di uno degli autori. Voghera. Purtroppo non il Guido Voghera che inseguo da qualche anno. Ma solo un Giorgio Voghera qualsiasi. Il libro si intitola Gli anni della psicoanalisi. Il risvolto mi informa che si tratta del ritratto dal vivo di alcuni mostri sacri della grande tradizione triestina: Svevo, Saba, Balzen e compagnia bella. Scorro distrattamente l’indice e mi blocco esterrefatto di fronte a un titolo: «Biografia di Guido Voghera. La vera storia di mio padre».
Proprio così: il libro che avevo in mano era stato scritto dal figlio dell’Anonimo Triestino. Il che significava che l’Anonimo Triestino aveva avuto un figlio. Già questo mi pareva incredibile e in qualche misura increscioso. L’Anonimo Triestino, almeno il mio Anonimo Triestino, non avrebbe mai fatto un gesto così costruttivo come quello di procreare.
Ero troppo emozionato per mettermi a leggere. Il piacere di svelare finalmente il piccolo mistero che mi accompagnava da qualche anno meritava di essere procrastinato. Riuscii a indugiare per un altro paio di giorni. Poi mi immersi nella lettura. Più leggevo più restavo deluso. Non solo per il tono cronachistico con cui questa breve biografia era scritta, non solo perché Il segreto dell’Anonimo Triestino tardava a essere menzionato. Ma perché l’individuo di nome Guido Voghera, almeno nel ricordo del figlio, non corrispondeva in alcun modo all’uomo sulla cui vita eroica avevo così fervidamente fantasticato.
Ok, era un misantropo. Per il resto si trattava di un uomo gagliardo, dai fermi ideali socialisti. Non uno che manda a puttane la sua vita per amore. Non un romantico fallito. Come poteva un uomo del genere aver scritto Il segreto? Finalmente arrivai alla parte in cui Giorgio Voghera parlava della sola opera narrativa scritta del padre: per l’appunto Il segreto. Poche righe, del tutto impersonali, nelle quali Giorgio rivela che il padre, per scrivere il suo unico romanzo, si è ispirato a un’esperienza vissuta dal figlio. È Giorgio, il figlio, l’amante inconsolabile di Bianca Sorani. Non Guido, il padre. Che storia è questa? Il figlio vive un amore segreto e il padre scrive la sua storia? E se l’amore del figlio è davvero segreto come può il padre esserne a conoscenza? C’era qualcosa che non quadrava. Mi sentivo davvero preso in giro, turlupinato. La storia che mi aveva formato, la storia più commovente in cui mi fossi mai imbattuto non era altro che un divertissement letterario, l’ozioso esercizio di un vecchio signore che vuole fare il verso al figlio. D’altro canto però tutto questo mi induceva a riflettere sul potere della letteratura. Ero un lettore già abbastanza consapevole da sapere che tipi smart come Borges e Nabokov avevano suggerito un’idea della letteratura come menzogna. Ciononostante stentavo a digerire che l’autore che aveva cambiato la mia vita fosse un impostore. No, questo non riuscivo a perdonarlo, né a Guido né a Giorgio Voghera.
Da che insegno (ho iniziato a farlo precocemente) ho l’abitudine di andare in facoltà al mattino molto presto. I corridoi vuoti ravvivati dal bagliore ramato dell’alba. L’odore del caffè scadente nel bicchiere di plastica. La lezione da preparare in santa pace.
Anche quel giorno ero arrivato in facoltà alle sette e mezza. Prima di mettermi al lavoro avevo dato una scorsa ai giornali. Al solito partendo dalle pagine sportive per poi scivolare su quelle culturali. C’era un breve elzeviro di Claudio Magris che commemorava la morte appena avvenuta di Giorgio Voghera. Tra le altre cose Magris scriveva: «Con Giorgio Voghera, nato nel 1908, scompare l’ultimo classico della letteratura triestina e della Trieste ebraica. Autore di libri di diversa qualità, alcuni dei quali indubbiamente notevoli, Giorgio Voghera è legato soprattutto a uno straordinario romanzo, che narra la sua storia, come egli ammetteva, ma del quale non si sa con certezza se l’autore sia egli stesso o, come ufficialmente si ritiene, suo padre Guido Voghera: Il segreto dell’Anonimo Triestino, uscito da Einaudi nel 1961, un capolavoro aspro e struggente, la storia impietosa e inesorabile di una incantata perdizione amorosa che si blocca in un’acre inibizione».
Avevo quasi trent’anni quando lessi queste parole di Magris. Ne erano trascorsi venti dalla prima volta in cui mi ero interrogato sull’identità dell’Anonimo Triestino. Ero convinto di aver da tempo risolto il rebus. Ma ecco che un articolo rimetteva tutto in discussione. Era evidente che Magris non fosse poi così convinto che quel formidabile libro lo avesse scritto il padre per conto del figlio. Anzi, Magris lasciava intendere che l’autore misterioso fosse il figlio e che l’idea di attribuirlo al padre fosse da derubricare tra i gesti di pudicizia estrema: una beffa inflitta a se stesso con sconcertante determinazione. Ecco, questo sì che mi sembrava un atto degno dell’Anonimo Triestino.
E oggi — oggi che nessuno più legge Il segreto dell’Anonimo Triestino, oggi che la verità su quel libro è sepolta in due tombe e in qualche dimenticato scartafaccio editoriale — che cosa resta da dire di questa storia? Be’, forse che ancora una volta la letteratura ha trionfato con i soli strumenti di cui dispone: beffa, ironia e mistero.
Alessandro Piperno