Michele Farina, la Lettura (Corriere della Sera) 13/05/2012, 13 maggio 2012
LA TERRA E’ UN GOMITOLO DI CAVI A MOLLO
Ci sono due navi, la Sovereign e la Cable Innovator, che attraversano pigramente l’Atlantico trascinando un aratro. A cosa serve un aratro di 24 tonnellate? A seminare cavi sottomarini. Pensiamo che la nostra sia un’era senza fili: satelliti, mobile, wi-fi, nuvole. Forse dimentichiamo che ancora oggi il 95% delle comunicazioni internazionali avviene lungo le rotte usate ai tempi del primo telegrafo 150 anni fa. Sul fondo degli oceani. Quindici anni fa si «seminavano» 5 mila chilometri di «submarine cables» all’anno. Oggi 70 mila.
L’avvento della fibra ottica ha dato nuovo impulso. La Terra è un gomitolo di cavi a mollo (vanno dappertutto tranne che in Antartide, causa freddo e ghiaccio). Difficile tenere aggiornata la mappa, sostiene Alan Mauldin, direttore ricerca di Telegeography (il centro studi che ha fornito il planisfero cablato qui a fianco), soprattutto perché alle linee dismesse (più che alle nuove) non viene data molta pubblicità. I proprietari? Agenzie private, consorzi, società di telecomunicazioni. Seminare cavi costa. Per l’Hibernian Express, la nuova linea che nel 2013 collegherà Londra e New York, il budget è di 230 milioni di euro. A installarla è la britannica Global Marine Systems (leader mondiale del settore). Sue le navi con gli aratri giganti, che dove possibile scavano un solco di un metro e mezzo (e posano il cavo) alla velocità di un miglio all’ora. Per studiare il percorso ci sono voluti 18 mesi. Rotta breve (più o meno il «great circle» seguito dalle compagnie aeree), «acque basse» (meno di duemila metri di profondità), necessità di seppellire sul fondo il sottile tesoro di fibra (i nemici sono ancore, reti da pesca, tsunami, morsi di squali). Se l’aratro incontra un ostacolo (o un altro cavo) si manda giù un Rov (veicolo telecomandato) a bypassare il problema. Banda larga, misure strette: il cavo — spessore di due lattine di birra, guaina di acciaio — contiene otto linee di fibra ottica, ciascuna delle dimensioni di un capello, che fanno viaggiare 3,2 terabit di dati al secondo. Più o meno vuol dire che un vostro clic impiega 0,00072 secondi per completare i 12 mila chilometri dall’Europa all’America (e ritorno). La linea oggi più veloce, la AC-1 di Global Crossing (del 1998), offre una connessione oceanica a 65 millesimi di secondo. Con il nuovo Express si risparmiano 6 millesimi. Cioé niente. Eppure i proprietari dell’americana Hibernia Atlantic contano di vendere questa banda superveloce a banche e operatori tra la City e Wall Street. Nel mondo del trading elettronico c’è chi sostiene che per un hedge fund anche solo un vantaggio di un millesimo di secondo sui concorrenti può valere 100 milioni di dollari all’anno.
Ma il gomitolo dei «submarine cables» non è un gioco per finanzieri d’assalto. È una Rete che tocca tutti noi, miliardi di utenti e navigatori. È relativamente eco-friendly: non rompe troppo le scatole ai pesci, non manda in tilt il traffico marittimo (come gli scavi della fibra ottica in città), non ha grande impatto sul territorio (nessuno protesta per l’alta velocità delle connessioni subacquee). È un business sottomarino che non ha innescato (per ora) segnali conflittuali (come la corsa alle risorse naturali sotto i ghiacci squaglianti dell’Artico). Resiste la vecchia «Convenzione per la protezione dei cavi sottomarini» firmata (anche dall’Italia) nel lontano 1884. Ogni tanto qualcuno si rompe (una cinquantina di riparazioni all’anno soltanto nell’Atlantico). Difficile che un guasto a una singola linea crei grossi problemi (il traffico è deviato sulle altre disponibili), anche se nel 2008 milioni di utenti in Medio Oriente e Asia rimasero senza Internet per un guasto su una delle linee più lunghe del mondo: 40 mila km dalla Germania all’Australia e Giappone via Mar Rosso (il problema era sulla tratta Alessandria d’Egitto-Palermo). Dà una certa tranquillità, in un mondo che a volte sembra farsi troppo immateriale, senza condutture, pensare a quel reticolo di fili sul fondo del mare.
Michele Farina