Corrado Ocone, la Lettura (Corriere della Sera) 13/05/2012, 13 maggio 2012
LE TASSE DEVONO ESSERE FACOLTATIVE
«Al centro del moderno processo teso alla disattivazione dei cittadini si trova un sistema fiscale costruito in maniera del tutto sbagliata dal punto di vista psicopolitico. Deruba i cittadini fiscalmente attivi del loro orgoglio e li relega nella posizione di eterni debitori del Leviatano. Quanto più si dimostrano efficienti, tanto più sprofondano nei debiti; quanto più hanno da dare, tanto più vanno in perdita. Di recente, per giunta, i contribuenti non vengono condannati alla passività soltanto nel momento in cui versano le imposte nelle casse comuni, ma subiscono anche una passività di secondo grado, giacché lo Stato li ha incatenati, da dietro le spalle, alla galera del debito pubblico». Se, leggendo queste righe, avete pensato a un editoriale di commento sull’attuale situazione italiana, scritto dopo gli ultimi episodi di suicidio di imprenditori e cittadini indebitati, siete fuori strada. E sbagliate ancora se pensate che l’autore sia uno dei tanti opinionisti che, da una prospettiva liberale e antistatalista, ci mettono in guardia dall’eccessivo peso della pressione fiscale. Si tratta invece dello spiazzante Peter Sloterdijk, il controverso filosofo tedesco abituato da sempre alla polemica delle idee.
Tutto comincia tre anni fa, precisamente nel giugno 2009, quando all’improvviso, dismessi i panni dell’austero studioso di Nietzsche e Heidegger, il rettore di Karlsruhe Sloterdijk pubblica sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» un articolo intitolato: «La rivoluzione della mano che dà». Esso va a colpire dritto la coscienza «politicamente corretta» della Germania (social)democratica e di sinistra. In particolare, obiettivo polemico è ancora una volta (era già successo con la discussione sull’eugenetica) la Scuola di Francoforte di Jürgen Habermas e Axel Honneth. A loro il nostro rimprovera di accettare senza riflettere la retorica democratica del «pagare le tasse è giusto e bello». Senza gli introiti provenienti dalle imposte, lo Stato («la mano che prende») non potrebbe, secondo questa retorica, non solo garantire i servizi minimi di sua pertinenza (la difesa, l’istruzione, la sanità), ma nemmeno attuare le politiche di intervento positivo e redistribuzione sociale che stanno a cuore alla sinistra («la mano che dà»). Il risultato è però, secondo Sloterdijk, la creazione di uno Stato autoritario. I nostri Stati democratici, considerati dal punto di vista della fiscalità, sono coercitivi, autoritari, poco trasparenti. Essi presuppongono «semplicemente la pazienza fiscale come premessa implicita nell’habitus di una data popolazione». Ma fin quanto durerà questa pazienza? Fin quanto i cittadini saranno in grado di sopportare un «esproprio» così gravoso?
Qualcuno, a questo punto, potrebbe credere che Sloterdijk sia improvvisamente diventato iperliberale. Neanche per sogno. Da grande maestro dei colpi di scena, il «vichingo», come viene chiamato per il suo aspetto fisico, si allontana presto anche dalla retorica liberale: basta avere la pazienza di seguirlo fino in fondo nel suo ragionamento, che, dopo il primo articolo, è continuato in una serie di saggi e interviste che ora prendono in parte forma in Italia nel volumetto La mano che prende e la mano che dà (appena pubblicato da Raffaello Cortina).
Il discorso proprio dei teorici liberali è suppergiù questo: pagare troppe tasse è deleterio perché penalizza l’iniziativa individuale o la possibilità di reinvestire i profitti. Le somme incassate servono poi da una parte a mantenere in vita un’amministrazione burocratica pletorica e autoreferenziale; dall’altra a distribuire denaro a pioggia a cittadini-clientes, impigrendoli e distogliendoli dal darsi da fare. Pascal Salin, ad esempio, nel suo classico libro su La tirannia fiscale (Liberilibri), mostra come le democrazie moderne siano nate proprio dall’esigenza di limitare il potere del sovrano nel mettere le mani nelle tasche del cittadino. D’altronde, una vena antistatalista, e persino libertaria, si è sempre conservata nella cultura americana, fondendosi con il cristianesimo (Tommaso d’Aquino aveva parlato delle tasse come di un «furto legale» da parte dello Stato) e anche con l’ebraismo. Niente affatto antistatalista è però la prospettiva di Sloterdijk, perché al contrario egli auspica uno Stato forte e pieno di risorse. E non è nemmeno antidemocratica, proponendosi anzi di rafforzare il sentimento di partecipazione dei cittadini alla vita della polis. In sostanza, il pensatore tedesco propone «la graduale conversione dell’attuale sistema fiscale da rituale burocratico, basato sul prelievo obbligatorio d’imposte, in prassi basata sui contributi volontari dei cittadini a beneficio della collettività». In altre parole, «occorre garantire l’idea del bene comune non più unicamente attraverso la redistribuzione coatta, ma basandola su un’etica del dare dal fondamento più ampio possibile».
Quello di Sloterdijk è in sostanza il vecchio ideale della filantropia. Certo, è un ideale che ogni volta che viene riproposto suscita l’accusa di scarso realismo, ma solo perché, replica il teorico delle «sfere», la democrazia è in profonda crisi. Una crisi di cui la paura che essa mostra di avere nel ripensarsi, preferendo vivere per inerzia, è forse il segno più evidente. Se del caso, aggiunge Sloterdijk, per rafforzare l’ideale filantropico si potranno mettere in atto anche opportune «antropotecniche», ovvero quelle politiche di «addomesticamento» che gli stanno tanto a cuore e che, nel caso specifico, trasformerebbero il ministero delle finanze in una sorta di ministero dell’educazione alla generosità.
Corrado Ocone