Massimo Gaggi, la Lettura (Corriere della Sera) 13/05/2012, 13 maggio 2012
LE PARTICELLE ALIMENTARI
L’inferno dei cibi da fast food di terz’ordine, resi appetitosi dall’aggiunta di aromi che danno a un hamburger o a un pezzo di pollo un attraente gusto di affumicato, un profumo di barbecue. Ma anche il paradiso (artificiale) di una chimica alimentare che, studiati per anni i meccanismi dei recettori nervosi del gusto, ha trovato la formula magica per dimezzare il contenuto di zucchero di molti alimenti e bevande, mantenendo intatta la percezione di dolcezza. E che, nella ristorazione industriale, ora sta imparando a ridurre il contenuto di grassi senza perdere il sapore. Una speranza per la salute dell’uomo, dopo i decenni della moltiplicazione degli obesi e delle epidemie di diabete infantile.
Insieme a quella delle tecnologie digitali, la rivoluzione del cibo è la trasformazione più imponente in atto nel mondo industrializzato (il 90 per cento della spesa delle famiglie Usa è fatto di alimenti trattati). È la rivoluzione che avviene più vicino a noi — nella nostra bocca — e ha anche un grosso impatto su abitudini e culture: la scossa della velocità anche nella ristorazione, gli stili di vita cambiati da un microonde che sostituisce pentole e fornelli. E, ora, i nuovi ceti medi dei Paesi emergenti (soprattutto Cina e il resto dell’Asia) che, inseguendo modelli di consumo occidentali anche nell’alimentazione, spingono l’industria dei sapori a inventare nuovi cibi capaci di offrire al palato la stessa sensazione di derrate — dal cacao agli agrumi — i cui raccolti non potranno mai bastare a soddisfare una domanda che sta esplodendo in un nuovo mercato asiatico di due miliardi e mezzo di consumatori potenziali.
E pazienza se il gusto di agrumi di una bevanda offerta ai cinesi, che stanno diventando pazzi per le arance, verrà dato da un certo tipo di cicoria.
Templi misteriosi gestiti da sacerdoti del gusto che amano la segretezza, le cattedrali dei sapori sono ormai costruzioni gigantesche che, negli Stati Uniti, sono concentrate lungo la New Jersey Turnpike: un’autostrada che taglia lo Stato-giardino, poche decine di miglia a sud di New York. Qui le quattro multinazionali (due svizzere, Givaudan e Firmenich, l’americana Iff e la tedesca Symrise) che si dividono il mercato mondiale dei sapori hanno i loro impianti chimici e di estrazione di aromi naturali, i laboratori di ricerca, le raffinerie. Qui si dà gusto al cibo industriale che riempie i nostri carrelli al supermercato, spesso reso insipido dai processi di conservazione o da quelli imposti per la tutela della salute, come la pastorizzazione. Ma qui si studiano anche nuovi gusti, riproducendo e provando a ricombinare aromi esotici catturati in giro per il mondo: il bottino di veri e propri safari degli odori e dei sapori. È quella che gli addetti ai lavori hanno soprannominato «Great Flavor Rush», la Grande Corsa al Sapore, ricordando la corsa all’oro dell’Alaska di fine Ottocento: spedizioni di flavor hunting, caccia al sapore, soprattutto in Africa e India, condotte da decine di ingegneri, esperti di essenze e chimici. Con laboratori mobili al seguito.
Oltre a esplorare il nuovo, nei loro uffici blindati i preziosi esperti di questa industria — flavorist, food technologist, supertaster (i super sommelier del cibo) e i food developer, sviluppatori capaci di disegnare un nuovo cibo a tavolino come un ingegnere disegna il profilo aerodinamico di una nuova vettura — provano anche a evocare antichi sapori capaci di stimolare le memorie e la fantasia dei consumatori.
Esperti di un nuovo grande mercato delle illusioni e delle sensazioni che devono unire alla conoscenza della chimica un certo spessore culturale: la sensibilità per le preferenze dei diversi popoli, la diabolica capacità di risalire ai sapori che hanno segnato la nostra infanzia. E che hanno bisogno anche di un po’ di talento artistico. Come nella pittura — ha scritto il «New Yorker» analizzando tempo fa il fenomeno — tra i creatori di nuovi cibi ci sono gli iperrealisti che ricombinano molecole con grande audacia, i fauvisti che puntano sulla sensualità dei sapori, i neoprimitivi che riscoprono estratti di oli essenziali con storie millenarie e i cubisti che decompongono e semplificano i sapori come fossero forme.
Mondo strano quello dei sapori, sulla bocca di tutti eppure segretissimo: le industrie alimentari, dalla Coca Cola alla Kraft, dalla Pepsi a McDonald’s, non amano far sapere che si affidano a specialisti esterni quando devono cambiare menù o aggiungere gusto a un cibo. Eppure in molti casi queste multinazionali del cibo industriale fabbricano, commercializzano con la forza del loro brand e distribuiscono prodotti ricevuti chiavi in mano da un team di food developer delle quattro multinazionali e di alcune aziende-boutique del gusto: un’industria da 20 miliardi di dollari che, dicono gli esperti, diventerà un gigantesco mercato da 300 miliardi man mano che crescerà il business della sostituzione delle sostanze alimentari che scarseggiano.
Tra i quattro «signori dei sapori» al timone delle multinazionali delle essenze, c’è anche un italiano: Aldo Uva, un manager che ha lavorato per la Nestlé, l’americana Sara Lee, l’italiana Parmalat e ora dirige da Princeton, in New Jersey, la divisione alimentare della svizzera Firmenich. Un giramondo come i suoi colleghi, dal messicano Mauricio Graber della Givaudan all’argentino Hernan Vaisman, alla guida della statunitense Iff.
Un’industria promettente o allarmante, a seconda dei punti di vista. Uva, lucano verace, sa bene che la manipolazione dei cibi genera diffidenza. A tavola contano anche le emozioni, ma, nota, «se ci ragioniamo un po’ è facile scoprire che l’abitudine a modificare i cibi con vari tipi di spezie o usando diverse tecniche di conservazione è antica come il mondo. E che la sostituzione di derrate scarse con altre sintetiche è già una realtà da molto tempo. Il 90 per cento della vaniglia che consumiamo è, in realtà, da più di mezzo secolo vanillina: una sostanza estratta da molecole delle conifere e sintetizzata nel 1874 da due scienziati tedeschi. Ora lo stesso problema di scarsezza che avevamo per la vaniglia lo stiamo sperimentando col cacao, la menta e gli agrumi. Di terre buone per coltivare arance non ne sono rimaste altre e per fare un agrumeto che dia frutti ci vogliono 5-7 anni. Intanto ogni anno nella sola India il numero di consumatori di bevande a base di agrumi aumenta di 50-60 milioni — racconta Uva —. Per questo le industrie cercano di riprodurre questi sapori utilizzando anche analisi chimiche e perfino neurologiche: ad esempio lo studio di come si trasmette al nervo trigemino, recettore di questi impulsi, la sensazione di freschezza della menta. E provano a estrarre e sintetizzare aromi simili da altre sostanze o anche dagli stessi oli e dai gusci, come avviene per i semi di cacao e la buccia delle arance».
Insomma un’industria proiettata nel futuro, ma con solide radici in un passato anche remoto: è almeno dai viaggi in Asia di Marco Polo e dalla spedizione di Cristoforo Colombo, che nelle Americhe cercava soprattutto spezie, che aromi e sapori si intrecciano con la storia dell’uomo. Cambiano il suo modo di alimentarsi, condizionano la sua evoluzione.
«Ed è proprio studiando l’evoluzione — racconta la food developer Barb Stuckey —, che gli scienziati hanno scoperto che la repulsione che l’uomo, fin da neonato, ha per l’amaro e il desiderio di dolce nascono da un meccanismo innato di autodifesa dell’uomo primitivo. Cercava sostanze commestibili e quasi tutte quelle velenose sono amare, mentre ciò che è dolce generalmente nutre». La Stuckey ha appena raccontato le sue avventure di esploratrice dei sapori in Taste («Gusto»), un saggio di successo che ha animato anche dibattiti fra intellettuali.
Poche sere fa, al 92Y, un centro culturale ebraico di New York, la Stuckey ha discusso di alimentazione col sociologo-psicologo Malcom Gladwell, interessato soprattutto a capire se chi possiede un palato sofisticato ha anche una capacità superiore di valutare altri aspetti della vita in tutta la sua complessità, e con Adam Gopnik, firma di punta del «New Yorker». Che a un certo punto si è detto capace di intuire gli orientamenti politici di chi lo invita a cena da quello che viene servito in tavola: cibi organici fanno molto sinistra liberal, ma se si ricorre a sapori tradizionali particolarmente intensi, a ingredienti di una tradizione antica, siamo in campo repubblicano.
La Stuckey li ha corretti fin dall’uso del termine palato, spiegando che il sapore incide solo in minima parte nella nostra percezione del cibo (forse il 5 per cento). Il grosso viene dall’olfatto — l’aroma che si sprigiona durante la masticazione e che viene percepito nella zona retronasale — e anche, in misura minore, dalla vista (vedi la grande attenzione degli chef alla presentazione dei loro piatti) e perfino dall’udito: «Se il cibo servito in aereo sa di poco, è anche perché il rumore di fondo continuo dei motori attutisce la percezione dei sapori. Bisogna aggiungere sale e zucchero per ottenere la stessa sensazione che si ha mangiando in un luogo silenzioso».
Insomma, è molto importante salvare la poesia del cibo, però mangiare è sempre più una scienza. Usata per coniugare illusioni e realtà. Lo yogurt alla fragola sa di fragola e in molti casi contiene anche polpa di fragola. Ma il sapore viene sempre dagli aromi aggiunti. Perché la polpa va pastorizzata e, una volta sottoposta a questo processo, non sa più di nulla. E poi, spiegano gli esperti, se si dovesse usare il frutto vero per tutto lo yogurt strawberry prodotto dalle aziende europee, non basterebbero neppure tutte le fragole raccolte nel mondo.
È una scienza che a volte viene raccontata come La fabbrica di cioccolato del film di Tim Burton. Ma nell’industria del gusto non si incontrano dei Willy Wonka-Johnny Depp. È più facile imbattersi in manager pragmatici come Uva, pronti a spiegarti che aggiungere cloruro di potassio (che poi è un sale) a un dolcificante non ha nulla di sconvolgente. Anzi è positivo per tutti, o quasi: «Abbiamo a disposizione lo Stevia, il dolcificante del futuro, dieci volte più potente dello zucchero. Ed è naturale: una pianta subtropicale che cresce in molti Paesi, dall’India all’America Latina, e che può far decollare l’agricoltura africana. Con un difetto: dopo la sensazione di dolce, arriva un retrogusto metallico. Lo possiamo mascherare con un cocktail di sostanze capaci di eliminare i sapori sgradevoli composto, comunque, da sostanze naturali, compreso questo sale. Qualche volta anche noi, anziché aggiungere sapori, impariamo a sopprimerli».
Massimo Gaggi