Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 12/05/2012, 12 maggio 2012
CHE ERRORE AVER PUNTATO TUTTO SUI BESTSELLER
Il calo era previsto. Bastava fare un salto in una qualsiasi libreria e annusare l’aria. Da ieri però lo si sa con certezza grazie ai dati Nielsen: il mercato dei libri, nel primo trimestre del 2012, è crollato quasi del 12 per cento. Per capirci qualcosa in più, bisogna dare altri numeri. È vero che l’editoria libraria italiana è notoriamente tra le meno brillanti d’Europa e che gli indici di lettura (solo il 45 per cento dichiara di leggere almeno un libro l’anno) registrano uno scarto di 25-30 punti percentuali rispetto a Paesi come la Svezia, l’Estonia, la Finlandia, il Regno Unito. Ma il calo degli ultimi mesi ha davvero qualcosa di eccezionale e di allarmante, perché probabilmente va a intaccare ancora di più i consumi di quelli che vengono chiamati «lettori forti» (12 e più libri l’anno), tradizionalmente il vanto del nostro mondo editorial-culturale. La tendenza positiva che dal 2006 al 2010 ha visto salire dal 44 per cento al quasi 47 per cento i lettori di almeno un libro l’anno, ha subìto per la verità un’inversione già nel 2011 (45,3) e in parallelo sono diminuiti i lettori forti (dal 15 a un quasi 14 per cento).
Sono andamenti che meritano una seria riflessione per un Paese economicamente e culturalmente depresso. Dai nuovi dati emergono elementi significativi e insieme contraddittori. Per esempio, mentre le librerie indipendenti sono costrette a chiudere, si scopre che quelle il cui fatturato è maggiormente in crisi (-12,8 per cento) sono le librerie di catena, a fronte di un calo meno sensibile, appunto, per le indipendenti (-10,6): dunque, prendendo sul serio la persistente fedeltà (o la minore infedeltà) nei loro confronti, non sarebbe utile ascoltare un po’ di più gli Sos dei librai indipendenti, soffocati dai colossi? E mentre si parla fino all’ossessione di ecommerce, proprio le vendite online (i cui prezzi sono più volatili) subiscono una flessione considerevole (-12,4). Né si può dire, al momento, che l’ebook (0,9 per cento) abbia una qualche seria incidenza sul tutto. Era prevedibile, invece, lo scarto tra incasso (-11,8) e copie vendute (-10,8), visto che l’effetto imitativo del successo Newton Compton (con l’invasione di volumi a 9,90 euro) ha spinto al generale ribasso i prezzi di copertina (con l’invenzione di collane molto economiche — e non si sa quanto realmente fortunate — come le «Libellule» Mondadori).
Va fatta poi qualche considerazione sui generi editoriali. Primo: ad essere castigata con più severità è la saggistica generalista (-19 per cento), per intenderci quella le cui punte spesso e volentieri vediamo svettare nelle classifiche (il Del Piero di queste settimane o i vari scritti giornalistici). Evidentemente, per pochissimi casi clamorosi, esiste una marea di prodotti pressoché invenduti. Secondo: è interessante che la saggistica specialistico-accademica venga punita meno. La serietà scientifica resiste meglio alle intemperie.
Terzo punto, più generale: bisognerebbe mettere in discussione il legame perverso tra marketing e uffici stampa, che negli ultimi tempi ha imposto il suo diktat: puntare solo sui titoli che danno segnali immediatamente positivi, abbandonando gli altri al proprio destino. La forbice sempre più larga tra i pochissimi bestseller (generalmente di bassa qualità) e il gigantesco resto (non di rado libri molto leggibili e insieme di ottima fattura: ci sono!) a conti fatti non giova all’editoria. Permette visibilità e rapidi incassi, ma alla lunga non paga. È la triste morale del sondaggio Nielsen. Quarto: in questa ottica, il -10 per cento della narrativa è ancora più preoccupante, perché affossa tantissimi romanzi (e tra questi la letteratura migliore) e salva una schiera minuscola e in genere mediocre. Il risultato di questa (lucida?) strategia, che ha consegnato al commerciale il destino della letteratura, è fallimentare sul piano economico e ancora di più sul piano culturale in un Paese che arranca verso una sempre più ipotetica crescita economica e (prima ancora?) culturale.
Paolo Di Stefano