Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 12 Sabato calendario

CADE IL MITO JPMORGAN: «ABBIAMO SBAGLIATO TUTTO» —

Non era una tempesta in una tazza di tè, come lo stesso Jamie Dimon l’aveva definita un mese fa, quando si cominciò a parlare delle scommesse gigantesche e assai rischiose fatte dalla filiale britannica della sua banca. Chi l’aveva soprannominata «the London whale», la balena londinese, aveva visto giusto. E non esagerava nemmeno chi, nei corridoi della JPMorgan Chase, chiamava un trader inglese dell’istituto Voldemort, l’incarnazione del male nella saga di Harry Potter.
Ieri è stato l’orgoglioso capo che ha trasformato la Chase nella più grande e stabile banca americana a doverlo ammettere: «Errori, sciatteria, valutazioni sbagliate. Una cattiva strategia, eseguita male e controllata ancora peggio: non è questo il modo nel quale vogliamo gestire i nostri business». Dimon non ha cercato scuse per l’improvviso emergere di una perdita di due miliardi di dollari nelle attività di «trading» ad alto rischio della JPMorgan Chase. Il banchiere ha ammesso che la sua organizzazione non ha saputo gestire né controllare: «Non so se abbiamo commesso reati, stiamo indagando, certamente siamo stati stupidi». Insomma, ha usato parole taglienti quanto quelle che lui stesso aveva speso in passato per criticare il Congresso e anche il presidente Barack Obama e quello della Federal Reserve, Ben Bernanke.
Reduce dal disastroso crollo del 2008 innescato dal fallimento della Lehman Brothers, Wall Street si era infatti messa nella scia del tribuno-Dimon. Sperava che il banchiere uscito indenne da una stagione di disastri che aveva travolto un’intera generazione di «titani» della finanza, l’avrebbe fatta scendere dal banco degli imputati.
Dimon non li aveva delusi. Si era battuto contro l’introduzione di nuovi vincoli giudicati punitivi ed era arrivato addirittura a chiedere in una sede pubblica al suo «controllore», Ben Bernanke: «Non temi di scoprire un giorno, voltandoti indietro, di aver dato via libera a regole che hanno compromesso la riattivazione del credito, dell’economia e la stessa creazione di posti di lavoro?»
Il banchiere è stato fin qui la massima espressione di un nuovo clima che a Washington si è tradotto in una forte pressione sulle «authority» di regolazione perché diano un’interpretazione minimalista della riforma finanziaria Dodd-Frank, varata dal Congresso due anni fa.
Ora tutto cambia: il «buco» nel bilancio della Chase ha riportato in vita i fantasmi del 2008. Ci si accorge all’improvviso che il mostro dei prodotti finanziari derivati non è stato affatto domato, che la lezione della Lehman è già stata dimenticata, che i controlli interni introdotti dalle banche per evitare un altro crollo sono piedi di lacune.
Il mercato, spaventato, ha preso le distanze dalla Chase il cui titolo ha perso più del 9 per cento in un solo giorno, mentre la Sec, la Consob americana, ha aperto un’inchiesta sul caso. La Fed, già sotto accusa per aver promosso la Chase al recente «stress test» delle banche, probabilmente dovrà fare altrettanto, anche perché la riforma Dodd-Frank le conferisce precise responsabilità ispettive.
La perdita accusata dalla banca di Dimon non sarebbe di per sé disastrosa: 2 miliardi sono molti, ma l’istituto l’anno scorso ne ha guadagnati 19. Nel bilancio alla fine il danno sarà ridotto a meno di un miliardo. Quello che allarma è il quadro emerso: grosse perdite su attività speculative ad alto rischio condotte dalla banca usando il capitale versato dai depositanti e garantito da un’agenzia federale. È proprio lo scenario che tutti temevano, che il Congresso aveva cercato di scongiurare con la norma che vieta alle banche di usare il capitale proprio nel trading (la cosidetta Volcker Rule).
Pure fantasie, replicavano i banchieri, ma ora si scopre che, anche se negli ultimi anni ci si è comportati con più prudenza, il confine tra le operazioni cosiddette hedge (quelle che Chase riteneva di aver fatto) e le speculazioni fatte utilizzando il capitale proprio è troppo labile. E ora molti si chiedono cosa può venire fuori dalle altre banche se una situazione simile si è sviluppata in quella considerata più prudente e meglio gestita.
A Washington si moltiplicano le voci che invitano le «authority» a varare norme attuative severe. E mentre il Congresso preme sulle banche con la minaccia di un’altra raffica di audizione e qualcuno ritira fuori la proposta di tornare alla separazione netta tra banche commerciali e d’affari, come nel Glass Steagal Act del 1933, Wall Street cerca di uscire dall’angolo ammonendo: «Attenzione, se vietate il proprietary trading spingerete gli istituti a emigrare verso Singapore e la Cina, dove queste attività sono ammesse». Argomenti già usati quasi dieci anni fa per evitare l’introduzione di controlli e regole dopo lo scandalo Enron. Allora il rischio sbandierato era quello di un’emigrazione in massa della grande finanza verso Londra. Si sa com’è andata a finire.
Massimo Gaggi