Diego Gabutti, ItaliaOggi 11/5/2012, 11 maggio 2012
Tirare palle di stracci a Steve Jobs è un gioco di società Secondo Evgeny Morozov, autore per Codice Edizioni di Contro Steve Jobs, pp
Tirare palle di stracci a Steve Jobs è un gioco di società Secondo Evgeny Morozov, autore per Codice Edizioni di Contro Steve Jobs, pp. 104, euro 6,90, «il cambiamento come categoria di pensiero non sembrava far parte dell’universo di Steve Jobs, sebbene fosse sempre alle prese col tentativo di migliorare i suoi prodotti». Venditore di tappeti elettronici, detentore d’un logo acchiappagonzi, il fondatore di Apple era tutt’al più un designer funzionalista e si sa che «il funzionalismo ha dato ai designer modernisti l’illusione di lavorare al di fuori della realtà grossolana delle logiche di mercato, e di dedicarsi alla ricerca della verità, infondendo loro al contempo un senso d’autonomia che li ha elevati al rango di poeti e artisti, e non più di puri e semplici strumenti nelle mani delle grandi imprese». In realtà, naturalmente, un designer non è che un arredatore. È un decoratore. Nel migliore dei casi è un tale che, come Jobs «ha inaugurato un nuovo stile nella creatività messa al servizio della promozione, usando il potere della cultura per vendere i propri prodotti». Morozov esagera. Tirare palle di stracci a Steve Jobs è diventato un gioco di società (anzi d’alta società, di high society) fin troppo diffuso. Nessuna pietà per il caro estinto. Jobs, intendiamoci, era tutt’altro che un simpaticone. Era un po’ il Beppe Grillo di Cupertino, California: un grande showman, ma soprattutto un «vaffa» vivente a chiunque non condividesse la sua visione del futuro tecnologico dell’umanità. Morozov, in apertura del libro, ironizza su Der Spiegel, che anni fa dedicò a Jobs un articolo intitolato Il filosofo del XXI secolo: «È difficile ricordare un altro amministratore delegato che abbia ricevuto un simile riconoscimento, per di più da una rivista tedesca che in passato ha ospitato nelle sue pagine nientemeno che Martin Heidegger». Alla fine del libro ci ripensa e scrive che Jobs «non ha mai elaborato una coerente teoria della tecnologia, ma le sue risposte nette agli intervistatori, mostrano come fosse pronto a pensare alla tecnologia in una prospettiva filosofica». Filosofo, ma cattivo filosofo, cinico e misantropo, «Jobs ha finito per [divenire] indifferente se non addirittura ostile», lamenta Mozorov, ferito nel suo chic, «agl’ideali della controcultura che aveva sposato anni prima». Be’, è un vero peccato, ma vuol dire che, scrivendo questo articolo sul mio iPad, me ne farò una ragione. Inutile negare che l’uomo era pieno di difetti. Tutta quella pappa new age, il monaco zen giapponese che «celebrò le sue nozze» e «lo introdusse al concetto di ma, o spazio negativo», il maglione nero da iettatore, gli scatti d’ira, i Beatles, Bob Dylan, gli anni Sessanta, un Io napoleonico (o peggio, scalfariano). Ma Jobs, al di là del folklore e del gossip, è stato soprattutto il padre del primo (e unico) computer amichevole, il Macintosh, nonché il progettista dell’iPod, dell’iPhone e dell’iPad, aggeggi che hanno cambiato il mondo più dei guru, dei Beatles, di Che Guevara e degli anni sessanta messi insieme. È poco? Doveva fare di più? Più del Macintosh? Più dell’iPad? Morozov ironizza sul fatto che «il cambiamento come categoria di pensiero non sembrava far parte dell’universo di Steve Jobs». Ma anche lui sembra leggermente cieco ai cambiamenti. Morozov, che è anche l’autore, sempre per le edizioni Codice, dell’Ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di Internet, pp. 368, euro 27,00, diffida del cyberutopismo e dei suoi uomini provvidenziali. Non ha torto. Eppure si sbaglia. In Contro Steve Jobs Morozov scrive: «Abbiamo visto esplodere la bolla delle aziende dot-com, che ha di fatto mandato in frantumi il fulgido cyberottimismo degli anni novanta. Poco dopo è arrivato l’11 settembre, non esattamente la migliore occasione per celebrare le meraviglie della tecnologia moderna. Gli aerei dirottati, le due torri del World Trade Center che si schiantano al suolo, l’incapacità dell’esercito americano (la forza militare più tecnologica al mondo) di fare qualcosa al riguardo, l’invisibile sorveglianza delle nostre comunicazioni elettroniche operata dai dispositivi d’intercettazione dell’AT&T: la sensazione era che la tecnologia o stesse funzionando male o fosse profondamente oppressiva». Ma questa sensazione non l’ha mai provata nessuno. Qualcuno ha davvero dato la colpa degli attentati e delle guerre alle tecnologie? Ai computer, ai lettori di mp3, agli aspirapolvere e ai frigoriferi, ai rasoi elettrici? Fondamentalisti islamici a parte, naturalmente? Morozov si sbaglia anche sull’«economia dot-com», risorta dalle sue ceneri, e mai così florida, anzi floridissima.