Sergio Rizzo, Corriere della Sera 11/05/2012, 11 maggio 2012
SGRAVI E CONTROLLI, TROPPI BUCHI NELLA LEGGE SUI PARTITI
Sia chiaro: qualunque regola è meglio del nulla che oggi consente ai partiti di usare i soldi pubblici senza controllo alcuno. Ma la legge che la Camera comincerà a discutere lunedì, inutile negarlo, è piena di buchi. Intanto i bilanci dei partiti, per cui ci sarà obbligo di certificazione, dovranno essere verificati da tre giudici: uno contabile, uno amministrativo e uno di Cassazione, designati dai presidenti delle rispettive magistrature. E qui c’è il primo problema. Quel compito spettava alla Corte dei conti, competente per i controlli su chiunque maneggi denaro pubblico. Ha gli uomini e il know-how. Difficile sostenere che una terna così pasticciata, il cui presidente sarà nominato dai presidenti di Camera e Senato, e che dovrà appoggiarsi alle strutture di Montecitorio, possa essere più efficiente e indipendente.
La legge riduce a un massimo di 91 milioni l’anno il finanziamento pubblico: considerando il 70% come rimborsi elettorali e il restante 30% erogabile sulla base del criterio tedesco del cosiddetto matching payment. Per ogni euro di contributo privato, lo Stato verserà altri 50 centesimi. Ai donatori sarà concesso uno sgravio fiscale doppio rispetto a quello di oggi. Ovvero il 38% contro il 19%, ma fino a un tetto di 10 mila euro anziché i 103 mila attuali. A meno che l’odiosa sperequazione non venga sanata con un emendamento, continueranno dunque a essere fiscalmente più favorevoli i finanziamenti ai partiti rispetto a quelli alle associazioni benefiche: non più 51 volte, come ora, ma «soltanto» dieci. Chi regalerà 10 mila euro alla politica risparmierà 3.800 euro contro i 392 di chi versasse la stessa somma a una fondazione contro la sclerosi. Inoltre, per ogni euro versato da un privato, il partito ne incasserebbe 1,50 e più della metà (88 centesimi) sarebbero a carico dei contribuenti. Questo porta il finanziamento pubblico reale da 91 a 111,7 milioni l’anno.
Ma soprattutto, per quanto le verifiche contabili possano essere rigorose, non ci sarà alcun controllo sulla destinazione della spesa. Per capirci, nessuno potrà sindacare come i partiti impiegano i quattrini, mettendo in discussione dichiarazioni come quella resa qualche giorno fa da Umberto Bossi: «Dei soldi della Lega, la Lega può fare quello che vuole». Qualunque soggetto finanziato con fondi pubblici, in Italia, deve avere determinati requisiti statutari e di governance. Qualunque, tranne un partito: non esiste alcuna regola che lo preveda.
E qui entra in gioco il famoso articolo 49 della Costituzione. Eccolo: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Lo stesso giorno in cui l’aula della Camera affronta le norme sui bilanci e i finanziamenti, inizia in commissione la discussione proprio sulla legge che dopo 64 anni dovrebbe attuarlo. Stabilendo una volta per tutte che cosa sono i partiti, a quali principi si devono uniformare i loro statuti, con quali regole interne devono essere gestiti. Insomma, tutti gli elementi che giustificano il finanziamento pubblico e di conseguenza delimitano agli scopi statutari l’impiego dei denari statali o anche degli iscritti.
Il testo all’esame è fragile. Lo è particolarmente nel punto che dovrebbe legare gli statuti ai fondi pubblici. Per giunta, dovrebbe essere approvato dopo la legge sui controlli, con una clamorosa inversione dell’ordine logico. In seguito agli scandali dei fondi della Margherita e della Lega bisognava intervenire velocemente sui bilanci. Giustissimo, anche se per farlo si sono aspettati più di sessant’anni. Ma nel momento in cui è saltata per volontà della Lega la corsia preferenziale dell’approvazione diretta in commissione delle norme sui controlli perché le due leggi non si unificano per approvarle, rapidamente, insieme? Mistero. Il deputato democratico Salvatore Vassallo dice che rischia di venirne fuori «un sistema in cui mancano gli elementi di regolazione che giustificano e rendono accettabile il finanziamento pubblico».
Il che complica, e non poco, anche il ruolo di Giuliano Amato, incaricato da Mario Monti di seguire questa delicatissima partita, e convinto che le norme sull’articolo 49 e quelle sui finanziamenti debbano necessariamente andare di pari passo. Come pure che questa possa essere l’occasione per introdurre regole di democrazia interna ai partiti, rendendoli quindi scalabili, e affermare principi di buon senso: per esempio che si deve imporre un tetto massimo anche ai contributi privati, come del resto alle spese elettorali. E che non si possono dare più i soldi ai partiti morti. Ovvio, no?
Sergio Rizzo