Morya Longo, Il Sole 24 Ore 12/5/2012, 12 maggio 2012
Una montagna che vale 7 volte il Pil mondiale «I derivati rappresentano un importante veicolo per diversificare i rischi e per allocarli agli investitori più capaci di gestirli»
Una montagna che vale 7 volte il Pil mondiale «I derivati rappresentano un importante veicolo per diversificare i rischi e per allocarli agli investitori più capaci di gestirli». Era il 1999 quando Alan Greenspan, allora presidente della Federal Reserve, incensava le proprietà quasi terapeutiche degli strumenti derivati. A quei tempi, calcola l’Isda, i derivati nel mondo ammontavano a 58mila miliardi di dollari. Oggi in giro per il globo ce ne sono sette volte di più: valgono, al nominale, 466mila miliardi di dollari. Di questa montagna, pari a quasi 7 volte il Pil mondiale, la metà esatta è in mano alle prime cinque banche americane. E JP Morgan batte tutti, con 70mila miliardi nella pancia. Una cifra a 13 zeri. È vero che il valore nominale non esprime il vero rischio, che è molto più basso, ma la domanda sorge spontanea comunque: che nesso c’è tra questi numeroni e l’economia reale? Non sono un tantino esagerati? E soprattutto: tutto questo che effetto ha sull’uomo della strada? L’effetto contagio Il problema è che, nonostante le opinioni di Greenspan, i derivati più che per diversificare i rischi vengono troppo spesso usati per moltiplicarli. Per speculare. Per fare scommesse. Sottovalutando, anche oggi, i rischi. Questa volta a perdere è stata JP Morgan, che in sole sei settimane ha bruciato 2 miliardi di dollari. A vincere sono stati alcuni hedge fund, che hanno intuito per tempo le manovre della banca americana e si sono messi contro. Se questa partita si fosse giocata in campo neutro, in un gigantesco casinò, non ci sarebbero problemi. Sarebbero fatti loro. Il problema è che l’andamento dei derivati, e soprattutto dei credit default swap, ha un’influenza su tutti gli altri mercati finanziari e alla fine sull’economia reale. Ecco come. I credit default swap sono polizze assicurative, che vengono comprate dagli investitori per proteggersi dal rischio di insolvenza di qualunque emittente obbligazionario: Stati, banche o aziende. Dato che queste polizze sono negoziate (purtroppo non su Borse regolamentate), il loro valore cambia ogni secondo: più l’azienda o lo Stato sottostante è percepito a rischio, più il costo della polizza sale. Più il costo della polizza cresce, però, più si ri-prezza l’intero mercato obbligazionario: un venticello sui Cds, insomma, può spingere al rialzo anche i rendimenti dei titoli di Stato e delle obbligazioni aziendali. E viceversa. Alla fine, tutto questo può dunque influenzare i conti pubblici o i bilanci delle aziende, determinando anche le scelte politiche. È cronaca recente che tanti Paesi, tra i quali l’Italia, abbiano adottato misure di austerità spinte proprio da uno spread troppo elevato. Se la teoria insegna che sono i fondamentali economici a guidare i mercati finanziari, il gigantismo di questi ultimi rischia insomma di invertire la regola: ormai sono i mercati a influenzare l’economia e a determinare le politiche di Governi e aziende. Burattini e burattinai Arriviamo dunque al problema: i Cds, cioè le polizze anti crack, sono in gran parte concentrate nelle mani americane ma hanno come oggetto principalmente i debiti europei. Esagerando, ma non troppo, si può dire che oltreoceano ci sono i burattinai e nel Vecchio continente i burattini. Il Paese al mondo su cui sono stati creati più Cds è l’Italia: ne esistono – calcola la Dtcc – per un valore di 342 miliardi di dollari lordi, che corrispondono a 20 netti. Poi c’è la Spagna, su cui sono stati costruiti 184 miliardi di dollari di Cds. E, dopo Brasile e Turchia, al quinto posto tra i più gettonati dai Cds svetta la Francia (147 miliardi) e poi la Germania (123). Ebbene: possono eventuali speculazioni sui Cds di questi Paesi influenzare il comportamento degli altri mercati, per esempio quello dei titoli di Stato? Non è il caso di JP Morgan, che si è mossa sui Cds di aziende e non di Stati. E tra l’altro ci ha perso, dimostrando che non sempre le mani forti vincono. Ma il rischio potrebbe esserci. Soprattutto perché i derivati non conoscono trasparenza (le lobby bancarie l’hanno sempre impedita), sono troppo concentrati e la loro rischiosità viene troppo spesso sottovalutata. La vicenda di JP Morgan è solo l’ennesima: affinché diventi l’ultima, servono nuove regole. Più trasparenza. E scambi concentrati in Borse regolamentate.