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 2012  maggio 11 Venerdì calendario

SEMBRA

lacrimare stamane l´arcidiacono senese Sallustio Antonio Bandini "che la dottrina della libertà economica insegnò prima per la prosperità".
Così recita l´iscrizione ai piedi della sua statua eretta dinanzi al castellare duecentesco dei Salimbeni, dove ha sede la Banca-Città della Città-Stato. Decine di finanzieri, nel senso di uomini della Guardia di Finanza, hanno violato mercoledì la "Scala d´Oro" di cemento armato costruita su progetto dell´architetto Pierluigi Spadolini, così chiamata per il numero di miliardi di lire costata a suo tempo, che conduce nel Sancta Santorum dirigenziale sotto l´affresco della Madonna della Misericordia dipinto da Benvenuto di Giovanni del Guasta. Là dove il nuovo presidente Alessandro Profumo, che da ieri è qui a rispondere a domande che un banchiere non vorrebbe mai sentirsi rivolgere, vedrà scorrere ancora lacrime e forse sangue. Perché il "groviglio armonioso" che il capo della massoneria toscana Stefano Bisi, prossimo Gran Maestro del Grande Oriente d´Italia, ci magnificò qualche anno fa raccontandoci la "grazia" della Banca-Città, è ormai ridotto a un groviglio "bituminoso" o "fangoso", come ha biascicato qualche giorno fa in piena assemblea un ex dipendente-azionista che ha perso il 70% dei suoi risparmi investiti nella Rocca franante. «Io - si giustifica oggi il presidente del Collegio dei venerabili - intendevo parlare di un groviglio che viene da secoli, da quando il Monte esiste». Un groviglio millenario di cui Profumo dice di non avere idea, perché - novello Alice nel paese delle meraviglie - di massonerie nulla dichiara di sapere, certificando la santità dei banchieri, che - dice - non sono brutti, sporchi e cattivi.
I senesi, si sa, sono gente di contrada un po´ anarchica e un po´ spocchiosa che finché le cose sembrava andassero bene nello scrigno bancario cittadino, unico esempio al mondo di un paradiso terreno costruito intorno a risparmio raccolto ovunque e speso qui, avrebbero offerto il petto a chi osava discutere il Monte. Noi qui, bonini bonini - dicevano parafrasando l´ex sindaco Pd Maurizio Cenni - abbiamo due o tre cose su cui non ci si divide mai: la banca, il palio e la nostra indipendenza. Ma ora che la Fondazione è alla frutta per aver dovuto far fronte alle ricapitalizzazioni seguite al trangugio del boccone Antonveneta e che rischiano di diventare un ricordo i quasi 200 milioni all´anno distribuiti tutto intorno a piazza del Campo per il benessere di 55 mila abitanti, cambia la musica. Niente più squadrone di calcio in A, Basket, Volley e aeroporto internazionale ad Apugnano, clone di Firenze e di Pisa, che sarebbe come mettere una pista per Jumbo tra piazza Venezia e palazzo Grazioli. Ora suona la canzone della "stecca". Sì, perché lo spiegamento di forze in tutta Italia per dimostrare un possibile reato di aggiotaggio - che forse nessuno è mai riuscito a provare in tribunale - non convince una città dove tutti lavorano, hanno lavorato e forse non lavoreranno mai più per il Monte.
Cerchez la stecca, non una cosuccia, ma un miliardo e mezzo di extracosto sull´acquisto di Antonveneta dagli opusdeisti del Santander, che in pochi giorni lucrarono 3 miliardi e passa, parte dei quali chissà in quali tasche è finito. Fantasie, allo stato degli atti. Ma qui le leggende metropolitane sono dure a morire. Fin da quando fu acquistata per 2.500 miliardi di lire la Banca del Salento e il dominus dalemiano dell´operazione Vincenzo De Bustis venne a sedersi a Rocca Salimbeni con la sua corte.
D´Alema e la banca rossa? Macché. Siena sarà pure rossa da sempre, ma il potere forte e compatto è eternamente arcobaleno, in un compromesso politico ben più che storico, multicentenario. Pci, Pds, Ds, i democratici governano, comunque si chiamino, la città e fanno tutti felici nel codice che - bonini bonini - funziona da secoli e che ha garantito la "centralità millenaria", come qui la chiamano, della banca.
A palazzo Salimbeni sono tutti equamente rappresentati su designazione politica locale e nazionale: partiti, Chiesa, Opus Dei, Massoneria, che qui è gran parte della borghesia, ma anche del ceto medio impiegatizio e commerciale, a sostegno di entrambe le tesi, quella di Benedetto Croce e quella di Antonio Gramsci. Mancano soltanto i gay, che infatti più di una volta hanno protestato: a Siena siamo più noi dei cattolici, allora perché la Curia ha un posto in Fondazione e noi no? Sessuofobi. Ma per il resto... Denis Verdini, plenipotenziario del partito di Berlusconi ancora forte prima del terremoto Grillo, si sbraccia l´anno scorso - così narrano - per sostenere la candidatura perdente a candidato sindaco e favorire la già scontata elezione del Pd Franco Ceccuzzi. Ma se l´ex macellaio di Campi Bisenzio ha bisogno di qualche milione per fronteggiare la precaria situazione della sua ex banchetta personale e della sua famiglia appassionata di ville, Rocca Salimbeni non fa una piega e nella sua millenaria centralità fa il suo dovere. Il direttore della Nazione è costretto per non fare la figura del peracottaro a dare qualche notizia sulle vicende della Banca-città e in un sospiro viene silurato dalla famiglia Monti-Riffeser, proprietaria del giornale, che ha in corso una bella speculazione edilizia nella tenuta di Bagnara, dove convolarono a nozze Casini e Azzurra Caltagirone. Il papà della sposa ha speso qualche centinaio di milioni nella Rocca ma, sempre il più furbo di tutti, si è sfilato appena ha potuto quando ha visto la malaparata.
I furbetti del quartierino alla scalata Antonveneta furono l´inizio di tutto. Fu poi, in onore alla vocazione trasversale che vide passare la banca veneta dei preti cattolici dai calvinisti olandesi dell´Abn-Amro agli opudeisti spagnoli del Santander e infine, a prezzi d´affezione, ai "comunisti" senesi che il presidente uscente, oggi presidente dell´Associazione bancaria, ci garantì con mani giunte sotto la Madonna della misericordia: «La nostra operazione su Antonveneta è stata fatta senza furbi, furbetti e furbacchioni». E la storia dimostra che i furbacchioni latitarono proprio, perché come dice Profumo «meglio veloci che grossi», soprattutto se è vera la tesi di un banchiere importante, ma non quotabile, che allora seguì la vicenda da un osservatorio privilegiato. Oggi ci garantisce che, secondo lui, il Monte mangiò l´Antonveneta non per produrre "stecche", ma per velleitarismo da piccola capitale bancaria del mondo, per evitare di essere mangiato da Unicredit o da Intesa-San Paolo e per garantire alla Banca-Città la sua "centralità millenaria", scalando la terza posizione tra le banche nazionali. Ce lo ha sempre teorizzato, alla senese, anche Maurizio Cenni, allora sindaco e oggi vicedirettore generale, guarda un po´, del Monte: «Noi siamo lupi, non pecore o orsacchiotti, come diceva Troisi. Non ci facciamo mangiare, semmai mangiamo». I lupi del Pd intanto, per contrastare l´onda dell´antipolitica grillina, hanno già cominciato il banchetto. Mangiandosi tra loro.
a. staterarepubblica. it