Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 12/5/2012, 12 maggio 2012
Gli eccessi nei giudizi sulla Spagna – La Spagna è il Paese che ospitiamo al Salone del libro. La Spagna è il Paese di cui fino a pochissimi anni fa parlavamo, con enfasi eccessiva, come di un modello: Paese allegro, ottimista, dei diritti civili, della crescita galoppante
Gli eccessi nei giudizi sulla Spagna – La Spagna è il Paese che ospitiamo al Salone del libro. La Spagna è il Paese di cui fino a pochissimi anni fa parlavamo, con enfasi eccessiva, come di un modello: Paese allegro, ottimista, dei diritti civili, della crescita galoppante. Oggi ne parliamo talora come la sentina di ogni male; con enfasi altrettanto eccessiva. La Spagna non era il Bengodi ieri, non è un lazzaretto oggi. È un grande Paese, e non solo per i suoi grandi scrittori, alcuni dei quali si potranno incontrare in questi giorni a Torino, da Javier Cercas, che ha riportato in vita i Soldati di Salamina della guerra civile, ad Arturo Pérez-Reverte, che ha creato un eroe europeo come il capitano Alatriste. Il confronto con la Grecia è del tutto inopportuno, e non solo per le dimensioni, il Pil, il numero di abitanti. La Spagna è un Paese politicamente stabile, certo percorso da tensioni autonomiste sulle sue frontiere — la Catalogna, il Paese basco, la Galizia —, ma con un sistema istituzionale che funziona e garantisce maggioranze e governi duraturi. Ha un sistema bancario importante, che ha perso un po’ dell’aggressività degli anni ruggenti e fa i conti con investimenti immobiliari il cui valore è drammaticamente crollato, ma in qualche modo ha retto alla crisi. La Spagna è la porta e la vetrina d’Europa: l’anello di congiunzione tra il continente e l’America latina; è il Paese più visitato al mondo. Gli spagnoli, dopo sette anni e mezzo di governo socialista, hanno scelto con nettezza un nuovo leader e una nuova maggioranza, che ha imposto sacrifici molto duri. Meritano di essere trattati con rispetto. Sarkozy non si è comportato in questo modo, durante la campagna elettorale. In ogni comizio ha usato la Spagna e gli spagnoli come paradigma negativo: «Volete finire come loro?». In risposta, Hollande ha battuto la Francia sud-occidentale, da Dax a Perpignan, da Pau a Tolosa, dove in ogni famiglia c’è almeno un antenato iberico, e in ogni piazza aveva parole di comprensione per il popolo al di là dei Pirenei: tutte città che (ovviamente non solo per questo motivo) hanno votato in massa per lui. Certo, il colpo è stato duro. Appena quattro anni fa, Rafael Nadal era il numero 1 del tennis. Fernando Torres segnava il gol decisivo per la vittoria degli Europei (seguita da quella ai Mondiali) e si imponeva come capofila di una nuova generazione di spagnoli alti e biondi, tipo il cestista Gasol. Baltazar Garzón era il giudice più giusto del mondo. Ferran Adrià il miglior cuoco. Pedro Almodóvar il regista più grande. Zapatero uno statista, speranza della sinistra europea. E Juan Carlos un sovrano saggio e amato. In un attimo, è cambiato tutto. L’economia è crollata. Nadal si è fermato. Torres è andato in crisi (e persino il Barcellona di Guardiola). Garzón è stato radiato dalla categoria. Adrià si è messo in ferie prolungate. Almodóvar pare aver smarrito l’estro. Il Psoe di Zapatero ha subito la peggior sconfitta di sempre. Pure re Juan Carlos ha avuto le sue cadute di stile. Al di là dei simboli, la situazione è seria. L’esplosione delle bolle immobiliari e finanziarie, tra loro collegate, ha acuito il grande problema della Spagna moderna, la disoccupazione. Il giorno dopo la grande vittoria della destra, nel novembre scorso, ci si attendeva il rimbalzo dei mercati: invece la Borsa di Madrid è crollata, perché le cattive notizie in arrivo da Francoforte pesavano più di quanto era accaduto nella capitale la notte prima. La Spagna è più che mai una regione d’Europa; proprio come tutti quanti noi. Anche per questo non può essere abbandonata, né denigrata. La Germania lo ha ben presente, anche perché gran parte del debito spagnolo è nelle banche e nei fondi tedeschi: si spiega così la curiosa bonomia con cui la Merkel ha accolto la decisione di Rajoy di non rispettare alla lettera gli impegni di bilancio. A maggior ragione il dovere del rispetto vale per noi. Anche sulla fratellanza tra i due popoli si è un po’ esagerato: spagnoli e italiani si sono combattuti per secoli, i veneziani si trovarono talora meglio con i turchi, e infatti quando si allearono con gli imperiali litigarono subito, il doge Sebastiano Venier fece impiccare i soldati spagnoli che si comportavano da padroni sulle galee veneziane, dopo la vittoria di Lepanto la coalizione si ruppe e i turchi si presero Cipro. Le differenze tra noi e loro prevalgono a volte sulle affinità: gli spagnoli ad esempio sono convinti di essere nati sotto una cattiva stella, mentre noi siamo abituati ad affidarci allo «stellone». Se gli spagnoli pensano l’Italia come un’immensa Napoli, pizza sole mare, noi pensiamo la Spagna come una grande Andalusia, e conosciamo meno la Spagna atlantica, verde e zitta. Ma ormai siamo tutti a bordo della stessa galea, dentro la stessa tempesta. Non era il caso ieri di invidiare la Spagna, non è il caso oggi di compatirla. I nostri fratelli latini sono capaci di grandi balzi in avanti, come quando in pochi anni passarono dal franchismo alla democrazia e alla movida. Ora sapranno uscire dalla crisi. E battere Nadal sarà durissima per tutti.