Giueppe Remuzzi, Corriere della Sera 12/5/2012, 12 maggio 2012
Quando gli scienziati di bioetica si arrendono alla propria malattia – Malignant è scritto da professori di bioetica che negli Stati Uniti vanno per la maggiore: Norman Fost, per esempio, ma anche Leon Kass, John Robertson, Daniel Brock e Rebecca Dresser
Quando gli scienziati di bioetica si arrendono alla propria malattia – Malignant è scritto da professori di bioetica che negli Stati Uniti vanno per la maggiore: Norman Fost, per esempio, ma anche Leon Kass, John Robertson, Daniel Brock e Rebecca Dresser. Non è un libro come tanti altri. Di speciale Malignant (con un sottotitolo che lascia poco all’immaginazione Medical Ethicists Confront Cancer, come dire «Quando i bioetici fanno i conti col cancro») ha proprio questo. Quei bioetici adesso stanno «dall’altra parte», si sono ammalati di cancro. Hanno avuto la flebo della chemioterapia in una vena del braccio, o un sondino nel naso che arriva fino allo stomaco per poter bere e alimentarsi. È a loro, adesso, che qualcuno chiede se vogliono partecipare a uno studio con un farmaco nuovo che costa moltissimo ma non si sa ancora bene se serve davvero. La bioetica è fatta di teorie forse giuste forse sbagliate, chi lo sa? (non si possono dimostrare) ma per chi ha dedicato la vita ad indicare agli altri come si affrontano questi problemi dovrebbe essere più facile sapere cosa fare se ci si ammala. Invece no. O per lo meno non per i professori di bioetica che hanno scritto Malignant. Al punto che invece di elaborare sui loro principi, nel libro raccontano di quello che gli è capitato che è poi quello che capita a tutti. Dell’angoscia di quando vieni a sapere di essere malato e di quando hai paura delle cure, e poi la speranza che torni tutto come prima e lo sconforto. E l’esperienza indimenticabile con quell’infermiera o con quel medico certe volte, e le miserie degli ospedali. Quasi non c’è traccia nel libro delle idee che venivano presentate ai convegni quando gli stessi autori dissertavano su cosa si dovrebbe fare per aiutare gli ammalati di cancro e dell’opportunità di continuare ad alimentare e idratare chi è in coma senza coscienza di sé e dell’ambiente e senza più speranze. Quando hai una figlia malata di cancro e costretta a letto per mesi e poi in preda ad una lenta agonia, ha scritto uno di quei professori, ti accorgi che la bioetica non ti aiuta più di quanto non possa aiutare un cuoco o un pilota di aereo. Rebecca Dresser insegna alla Washington University, ha avuto il cancro, le hanno chiesto di partecipare a uno studio con farmaci sperimentali costosissimi, che quando va bene allungano la vita di qualche settimana. Lei aveva un sacco di dubbi, «rischio troppo alto», ma i suoi familiari volevano che provasse tutto sperando in un miracolo. E l’etica? Il racconto che ti prende di più è quello di John Robertson dell’Università del Texas, scrive della disperazione di quando vieni a sapere che tua moglie ha un cancro, inoperabile, lei morirà, è questione di mesi. I problemi adesso sono quelli del rapporto fra chi è malato e i suoi medici che si sovrappongono a quelli con il partner, e con i figli e gli amici. E l’etica? John si accorge di colpo che non si è malati da soli e che quello che succede dipende anche dall’amore, dai legami, dai ricordi. Leon Kass è famoso per essere contro l’eutanasia, insegna a Chicago, nel suo saggio è disarmante: «Mi sono chiesto — scrive — cosa può fare la bioetica per aiutare gli ammalati, volevo sapere come si fa a morire bene e cosa c’è dopo. Le risposte, ammesso di trovarle, forse vengono dagli studi classici, dalla letteratura o forse chissà dall’antropologia o dalla teologia o magari dall’arte, o forse da tutte queste cose insieme, non certo dalla bioetica». Arthur Caplan nel commentare Malignant su Lancet finisce così: «Le armi che hanno i bioetici servono a poco contro un nemico vero. E a nulla quando ti rendi conto che quel nemico ce l’ha proprio con te».