Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 11/5/2012, 11 maggio 2012
Gesto di un Boss alla Fine (o un oscuro Messaggio) – La fine di un boss può essere un sacchetto di plastica nel quale infilare la testa
Gesto di un Boss alla Fine (o un oscuro Messaggio) – La fine di un boss può essere un sacchetto di plastica nel quale infilare la testa. Oppure il tentativo di far credere di volersi uccidere con quel sistema, per attirare l’attenzione su di sé o per qualsiasi altro motivo. In ogni caso è la fine di un capomafia. Perché dimostra che non sopporta più la vita in carcere, ancorché malato; o perché non ha più la forza di recitare il suo ruolo dietro le sbarre di un carcere di massima sicurezza, sotto le regole dure del «41 bis». Con il fallito suicidio, il mistero di Bernardo Provenzano si arricchisce di un nuovo capitolo. È solo un vecchio a cui la testa non cammina più come una volta, che parla da solo e nasconde chissà quale paranoia dietro la cura maniacale con cui tiene in ordine la cella, come riferisce qualche voce dall’interno del carcere, o è ancora un «uomo d’onore» che ha avuto un momento di cedimento? O sta tentando chissà quale manovra? Purtroppo in Italia la mafia che anche lui ha governato per lungo tempo, e pressoché in solitudine nell’ultimo decennio vissuto da uomo libero, tra il 1996 e il 2006, ha fatto talmente tanti danni, e intessuto tante di quelle trame inestricabili, che nemmeno il gesto di togliersi la vita può essere considerato e valutato come un avvenimento normale, di quelli che possono balenare nella testa di chiunque, e di qualunque detenuto. Magari lo sarà pure, ma non si può escludere qualcosa di diverso. Non a caso lo Stato continua a sorvegliare Provenzano 24 ore su 24, e pure per questa vigilanza quasi ossessiva gli agenti della polizia penitenziaria sono stati in grado di intervenire subito e salvargli la vita, se davvero voleva farla finita. Viene sorvegliato lui come Totò Riina e gli altri capimafia più importanti. Niente può essere lasciato al caso con loro, anche perché niente potrebbe essere quello che sembra. Subito dopo il suo arresto chiese di poter avere la Bibbia che fu trovata nel covo di Montagna dei cavalli, a pochi chilometri da Corleone, e con la quale accompagnava la sua latitanza: un libro pieno di annotazioni e foglietti che gli investigatori hanno provato invano a decifrare. Non gliela diedero, gliene concessero un’altra che ancora adesso il vecchio boss continua a leggere. Svolge regolarmente il colloquio mensile che gli è concesso con la moglie o uno dei figli, che a turno si sobbarcano il viaggio dalla Sicilia a Parma per andare a trovarlo. Colloqui che avvengono sempre attraverso il vetro divisorio, a uno dei quali, poco tempo fa, Provenzano voleva andare portandosi dietro la cartella clinica. Per regolamento non può, lui aveva tentato di nasconderla sotto la giacca, una guardia se ne accorse e fece rapporto. Subito scattò la domanda: che cosa voleva trasmettere con quel tentativo? Solo una richiesta d’aiuto, o la sottolineatura di qualche particolare malessere, o quale altro messaggio? Lui, i suoi familiari e gli avvocati dicono che sta molto male, i responsabili delle carceri ribattono che viene curato rispettando ogni canone ed esigenza. Purtroppo in casi come il suo nemmeno il diritto alla salute è semplice da rispettare. Quando l’hanno preso, nell’aprile del 2006, l’ultimo padrino corleonese era in servizio effettivo, inviava e riceveva i famosi «pizzini» coi quali dettava regole per le estorsioni, la vita interna di Cosa Nostra, i rapporti tra le famiglie, cercava di sedare contrasti, impartiva consigli e riceveva confessioni di delitti. Un capomafia in piena attività. Logico che lo Stato che ha impiegato 43 anni ad arrestarlo prendesse le sue precauzioni per evitare anche solo il minimo rischio che continuasse a comandare dal carcere. Chissà se è stata questa perdita di ruolo — a vent’anni esatti dalla strage di Capaci in cui pure lui deliberò che dovesse morire Giovanni Falcone — a indurlo a voler morire. O a far credere che volesse farlo. E chissà se arriverà mai una risposta a questo interrogativo. Come pure a quello che ieri sera provava a seminare il suo avvocato: che ci faceva un sacchetto di plastica, notoriamente uno degli strumenti usati per suicidarsi, nella cella supercontrollata di un recluso tanto illustre al 41 bis? Giovanni Bianconi