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 2012  maggio 12 Sabato calendario

L’INTERVISTA

Antonio Conte svela i suoi segreti
Sono un grande tecnico (E l’ho sempre saputo)–
La prima volta che ha preso una palla in mano l’ha fatto per suo padre, che era presidente della Juventina Lecce. Il dna bianconero l’ha ereditato dalla famiglia, Antonio Conte, oggi allenatore della Juventus, 42 anni, leccese. Sono passati molti anni da quando sedicenne entrò in serie A, debuttando nella squadra della sua città, il Lecce, il 6 aprile del 1986. È lì che diventa professionista ancor prima di essere diventato uomo. E per chi pensa che fare il calciatore sia solo un privilegio spiega: «Ho esordito poco più che ragazzino. Avrei avuto voglia di divertirmi, andare con gli amici al cinema, in discoteca. Ma se vuoi diventare un professionista serio a qualcosa devi rinunciare. Fino a ventuno anni avevo il coprifuoco. Non potevo rientrare più tardi delle 22.30».
Il metodo, la disciplina, li ha imparati a casa. Così come l’educazione e l’umiltà. La fede e l’attaccamento a valori antichi. Mi racconta cosa abbia significato per la sua generazione essere cresciuto in strada, libero come quasi nessun ragazzino oggi può fare, «la considero un’eredità quella formazione». Durante gli allenamenti parla ai giocatori di realtà, campo, sudore, sacrificio. Quelle che imparò da bambino in Puglia. Della sua terra ancora conserva accento e passione per il mare.
A ventuno anni si è trasferito a Torino, era il novembre del 1991. A volerlo, il presidente Giampiero Boniperti: «Ero un ragazzino che dal Sud, dal mare, dal sole, arrivava al Nord. Nel pieno freddo a Torino. C’era una nebbia fittissima quel giorno. Venne a prendermi il dottor Riccardo Agricola per farmi fare le visite mediche. La prima cosa che ho pensato dall’auto fu: “Mamma mia dove sono capitato”». Accolto da una famiglia calabrese e da Giovanni Trapattoni, che puntò su di lui. L’allenatore in quegli anni più forte del mondo aveva scelto questo ragazzino pugliese. «Ero intimorito. Provavo soggezione. Davo del lei ai miei compagni: Baggio, Schillaci, Tacconi». Ha iniziato a lavorare sodo, forse più degli altri, consapevole di dover migliorare la tecnica. E ci riesce. Diventa un punto fermo per la Juventus, capitano dal 1996 al 2001. «Non ho mai saputo di essere un grande giocatore. Ma ho sempre saputo che sarei diventato un grande allenatore». Si è anche laureato nel frattempo, 110 e lode in Scienze motorie con una tesi su “Psicologia e metodi dell’allenatore”. Tredici anni alla Juventus e poi un anno sabbatico, quello che sembrava il peggiore della sua vita e che, invece, l’avrebbe cambiata per sempre, dal 2004 al 2005: «Quando ho smesso di giocare ho passato un anno difficilissimo». E poi la scelta definitiva di diventare allenatore. La nuova carriera inizia nella stagione 2005-2006, a Siena, come vice di Luigi De Canio. E poi Arezzo, Bari, Atalanta e ancora Siena.
Ma la svolta arriva il 31 maggio del 2011, con la firma del contratto con la Juventus. È stato il presidente Andrea Agnelli a volerlo alla guida della sua squadra: «È un rapporto splendido quello che mi lega alla famiglia Agnelli, che si è consolidato nel tempo e che mi riempie di orgoglio. L’affetto e la stima sono ricambiati». Parla della sua ossessione per il calcio e cerca di rispondere a viso aperto alle cattiverie che gli sono state dette: «Ho un difetto, è vero. Non stacco mai, nemmeno a casa, però qualcuno dice che l’ossessione sia un’arte». Anche sua figlia, di quattro anni e mezzo, l’ha chiamata Vittoria. Un nome evocativo, regale. Un portafortuna. Anche se di vittorie future, di terza stella da appuntare, per ora, non se la sente di aggiungere nulla: «Solo quando ho una cosa in mano dico che è mia. Se l’obiettivo è vincere, bisogna aspettare la vittoria».
Incontro Antonio Conte a poche giornate dalla fine del campionato nella sede della Juventus a Vinovo. Sette anni fa mi confessò, durante una trasmissione sportiva in cui era commentatore, un sogno: «Diventerò l’allenatore della Juventus». E lo ricorda divertito, perché da quella stagione romana di cose ne sono successe, dalle leggende metropolitane che sono fioccate sul suo conto: «Sta morendo, lascia perché è malato» a una stagione che difficilmente i tifosi bianconeri dimenticheranno e che coinciderà sempre con il suo nome: inaugurazione dello Juventus stadium, record di imbattibilità, premio Maestrelli come miglior tecnico 2012. Anche se precisa: «La Juventus è un punto di partenza». Sarà un caso. Alle nostre spalle Guardiola annuncia in conferenza stampa che lascerà il Barcellona.
Stanno dicendo in questo momento i commentatori sportivi che Pep è “una brava persona”, che non ha mai amato le polemiche. Di lei potranno dirlo?
(Ride) «Lo dobbiamo chiedere a loro».
Chi è stata per lei la “brava persona” della vita?
«Trapattoni. Il secondo anno, dopo il mio arrivo alla Juventus, ha puntato su di me e ho giocato un anno importante. Sono diventato protagonista della Juventus. Gli devo tanto. È stato un padre. Ha capito le mie difficoltà. Restava dopo gli allenamenti per migliorarmi nella tecnica, anche trenta minuti in più. Insieme a Sergio Brio che era allenatore in seconda. La sua vicinanza è stata fondamentale. Perché quando incontri le difficoltà, il rischio spesso è quello di arrendersi, tornare indietro. Invece la mia forza è stata voler affrontare le difficoltà e non tornare sconfitto a Lecce».
Che giocatore è stato, ora che può giudicarsi anche con un altro sguardo?
«Sono stato un giocatore generoso perché ero conscio che se non avessi dato tutto non avrei potuto giocare nella Juventus. I primi tempi ero acerbo tecnicamente. Avevo solo una grandissima corsa. Invece arrivato alla Juventus ho avuto la bravura di migliorarmi fisicamente. Ho tirato fuori una grandissima volontà di rimanere nella squadra e dimostrare che ci potevo stare. Faticando tanto. È quello che auguro a chi vuole fare questo lavoro».
E che allenatore è?
«Non nego che non ho mai pensato di essere un grandissimo giocatore. Mentre ho sempre saputo che sarei diventato un allenatore. Già da Lecce, quando giocavo nella primavera e allenavo la squadra di mio fratello. Era una vocazione. Sono portato a dare un indirizzo. Un metodo. Indicare una squadra. Prendere le decisioni».
Come si diventa credibili allenando giocatori che sono stati compagni di squadra, amici?
«Essere credibili con i giocatori con cui hai condiviso serate, momenti importanti, è una conquista. Non smetti mai di conquistare credibilità. La puoi perdere con un atteggiamento. Se sbagli un giorno negli atteggiamenti, nei modi, perdi i 200 in cui l’avevi. Ci vuole coerenza, onestà intellettuale. Anche nello sport».
Perché urla?
«Sulle urla non mi freno. Da giocatore parlavo sempre in campo. Dalla panchina devi urlare per necessità. Lo dicono di me, ma io non urlo. Mi faccio sentire. E in mezzo a 60 mila persone è difficile. È un contatto continuo con i miei calciatori. Mi devono sentire. Devono sapere che sono sempre con loro».
Essere sempre con loro vuol dire controllarli anche prima delle partite?
«Non controllo i miei giocatori. Io credo nell’indipendenza del calciatore. Deve essere responsabile nella alimentazione, nel riposo, nel fare l’amore. Mi sembrerebbe di trattarli da bambini se dovessi intervenire. Su di me non sono mai intervenuti perché mi sono sempre attenuto a regole. Non sono mai stato scapestrato».
Sette anni fa ha vissuto un anno determinante. E su di lei hanno iniziato a fioccare leggende...
«Un giorno un tassista a Roma mi disse: “Sono contento di vederti” perché girava voce che ero su una sedia a rotelle. Pensavano stessi morendo».
Da cosa sono originate queste dicerie?
«Perché c’è cattiveria. Io sono stato capitano della Juventus. In più, sette anni fa ci fu lo scandalo del doping. Tutte cattiverie dovute a queste situazioni. Ne dissero tante su Vialli, Torricelli. Non era un attacco personale. Ma, come al solito, alla squadra. L’anno di pausa, quando ho smesso, è stato il periodo più brutto della mia vita. Ero affaticato, anche se mi sono buttato anima e corpo nel corso di allenatore di seconda categoria. In quell’anno fui molto combattuto se continuare o meno. Quel periodo durò dal giugno 2004 al giugno 2005».
E le nuove accuse? Cattiverie anche quelle?
(Sospira profondamente) «Cattiverie gratuite anche quelle sul calcio scommesse. Se gioco con mia figlia voglio vincere. Io voglio che i miei giocatori vincano. Diano il massimo. In un gioco pilotato questo non sarebbe avvenuto. Anche a Siena. Abbiamo avuto un’annata trionfale chiudendo con cinque giornate in anticipo. Nulla può inficiare sul bellissimo rapporto che ho avuto con i giocatori, con Siena città. Non devo difendermi. Sono tranquillo ed è giusto che chi sta indagando faccia le proprie indagini. Se dovessero chiamarmi, non avrei problemi a rispondere. Come sempre».
Quando un giocatore si può dire vecchio?
«È soggettivo».
Del Piero?
«Soggettivo».
Quindi per lei Del Piero è...?
«Per me Del Piero è un campione che mi ha dato tanto. Fuori e dentro il campo. Si è comportato bene e anche quest’anno sta ricevendo soddisfazioni di squadra, collettive e personali».
Il giocatore vecchio dunque non è quello che è in panchina. È quello che smette?
«Io non ho mai fatto una scelta per età. Quando faccio una scelta la faccio in base a ciò che vedo durante la settimana, che penso mi possa dare il giocatore e unicamente per vincere».
Che cosa l’annoia ultimamente?
«Da Allegri mi annoia ascoltare sempre le stesse cose. Come l’episodio di Muntari. Le stesse polemiche. Spesso e volentieri si strumentalizza. Un campionato lo vince il migliore. La squadra più regolare, che ha fatto meglio. Differentemente dalle partite singole, la vittoria del campionato non è frutto di una singola partita, ma di una intera stagione».
La stampa sportiva è di parte?
«Anche nella stampa ci sono i tifosi. E alcuni giudizi vengono dati in virtù della propria fede sportiva. Rinunciando alla obiettività. Alcune volte si è obiettivi, altre di parte».
Da giocatore prima ad allenatore oggi, lontano dai riflettori. Si parla poco della sua vita privata.
«Sono lontano dai riflettori perché vivo in una città tranquilla come Torino. Custodisco con gelosia la mia vita privata».
Com’è Antonio Conte lontano dal campo da calcio?
«Il calcio è un’ossessione. Arrivo a casa e ho la tv accesa. A parte il calcio, leggo. Leggo storie di grandi uomini. Di chi ha fatto la Storia. Che hanno scritto pagine di storia. Mi serve per ampliare il mio bagaglio di motivazioni. Mi circondo di persone vere. Mio fratello Daniele che mi ha raggiunto a Torino quasi subito. All’inizio giocava in C2. Quando mi sono accorto che non aveva un grande futuro, per deformazione professionale, l’ho indirizzato verso altro e oggi è stato un bene visto che è un dirigente di banca».
Acquasanta, rituali. Fede o scaramanzia?
«Sono credente, praticante. Da bambino sono stato anche chierichetto. Faccio il segno della croce prima di mangiare. Ringrazio sempre il Signore per ciò che mi ha dato».
I fuoriclasse che ha incontrato...
«Ho avuto la fortuna e la bravura di giocare con bravissimi giocatori. Zidane e Del Piero nella mia squadra mi hanno impressionato. Come avversario, sicuramente il fuoriclasse è Maradona».
Lei è un uomo ambizioso. Quale sarà il prossimo obiettivo?
«Un uomo ambizioso, a questo punto vuole continuare a crescere. A stupire se stesso e gli altri. La Juventus non è un punto di arrivo. Tutto per me è un punto di partenza».
Francesca Barra
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