VARIE 11/5/2012, 11 maggio 2012
APPUNTI PER GAZZETTA. RIVENDICATO L’ATTENTATO AD ADINOLFI
CORRIERE.IT - IL COMUNICATO
MILANO - È stato rivendicato con un comunicato a firma della Fai (Federazione Anarchica Informale) nucleo «Olga» l’attentato al dirigente dell’Ansaldo, Roberto Adinolfi, gambizzato a Genova. Il volantino di quattro pagine è stato recapitato al Corriere della Sera per posta ordinaria. Il timbro postale indica che la busta è stata inviata da Genova il giorno stesso del ferimento di Adinolfi. Secondo fonti della sicurezza e giudiziarie la rivendicazione è «attendibile».
IL NUCLEARE - Come incipit del lungo testo viene citata una frase dello stesso Adinolfi (tratta da un’intervista in tema di nucleare), in cui il dirigente sminuisce l’impatto ambientale dell’energia dell’atomo e la portata del disastro nucleare di Fukushima: «In Giappone si sono registrati oltre diecimila morti, ma neppure uno finora è dovuto a incidenti nucleari», è la frase, pronunciata in una trasmissione televisiva di un mese fa dal manager. Parole precedute da una citazione da Michail Bakunin, padre fondatore dell’Anarchia, sull’impotenza e la crudeltà «del governo della scienza e degli uomini di scienza». L’ultima citazione, con cui si introduce il testo della rivendicazione, è sempre di Adinolfi: «L’impatto ambientale del nucleare è limitato, considerato che non c’è produzione di CO2».
Il simbolo della FaiIl simbolo della Fai
PIOMBO NELLE GAMBE - Il titolo del documento è «Il marchio della vita». Il testo inizia così: «Abbiamo azzoppato Roberto Adinolfi, uno dei tanti stregoni dell’atomo dall’anima candida e dalla coscienza pulita». Sparare, dicono gli anarchici, è stato «un piccolo frammento di giustizia, piombo nelle gambe per lasciare un imperituro ricordo di quello che è ad un grigio assassino». Adinolfi «non solo ha progettato o ha collaborato nella gestione di centrali mortifere ma ne ha promosso l’impianto e lo sfruttamento con l’Ansaldo tramando con i singoli governi; scienza, politica ed economia in perfetto connubio». Poi di nuovo il riferimento al Giappone e a Fukushima: «È solo questione di tempo e una Fukushima europea mieterà morti nel nostro continente». E la minaccia: «Ti diamo una cattiva notizia - continua il comunicato - ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, è la tua fisica che ce lo insegna. Con questa nostra azione ti restituiamo una piccolissima parte delle sofferenze che tu uomo di scienza stai riversando sul mondo».
La busta con cui è stata inviata la rivendicazione
L’OBIETTIVO - L’obiettivo è stato scelto con cura, individuato in modo da «colpire dove più nuoce». Citato come un «nemico che veste i panni dell’agnello» e ritenuto tra «i maggiori responsabili, insieme a Scajola, del rientro del nucleare in Italia». Inquietante la parte del documento in cui si preannunciano nuove azioni «contro Finmeccanica piovra assassina». «Oggi l’Ansaldo Nucleare - scrivono gli autori del volantino -, domani un altro dei suoi tentacoli». E lascia di stucco il riferimento al «piacere» con cui «abbiamo riempito il caricatore. Impugnare una pistola, scegliere e seguire l’obiettivo, coordinare mente e mano sono stati un passaggio obbligato». «Siamo dei folli amanti della libertà e mai rinunceremo alla rivoluzione, alla distruzione completa dello stato e delle sue violenze», si legge.
OLGA, ANARCHICA GRECA - Il nome del nucleo Olga - in onore di Olga Ikonomidou, anarchica greca, detenuta in un carcere ellenico carcere dal 2011 - definita «nostra sorella delle CCF (Cospirazione Cellule di Fuoco/FAI», nuova corrente anarchica greca di cui la Ikonomidou farebbe parte. Il nucleo Olga fa parte della Federazione Anarchica Informale/Fronte Rivoluzionario Internazionale. In chiusura la Fai annuncia nuove azioni: potrebbero essere «almeno otto», tante quanti sono i «membri prigionieri» della Ccf/Fai detenuti in Grecia. «Nelle nostre prossime azioni - dice il documento - il nome degli altri fratelli greci, una azione per ognuno di loro». E vengono indicati i nomi degli altri detenuti in Grecia: Daniano Bolano, Giorgos Nikopoulos, Panayiotis Argyrou, Gerasimos Tsakalos, Michalis Nikolopoulos. Nel testo si fa riferimento anche al ferimento con un pacco bomba di un funzionario di Equitalia, Marco Cuccagna nel dicembre 2011. Ma da quel gesto prendono le distanze: «Potevamo colpire qualche funzionario di Equitalia - scrivono - ma non siamo alla ricerca del consenso».
LE INDAGINI E ADINOLFI ESCE DALL’OSPEDALE - Il Ros dei Carabinieri (il raggruppamento operativo speciale) sta analizzando il documento per capire l’autencità della rivendicazione. Secondo il procuratore di Genova Michele Di Lecce la rivendicazione «appare attendibile. Dobbiamo ancora analizzarla a fondo ma è strutturata». «Stiamo tentando di capire se il comunicato sia veritero, sembrerebbe di sì», ha spiegato alla Reuters il vicedirettore del Corriere della Sera, Daniele Manca. Per il criminologo Marco Boschi, docente di criminologia del terrorismo all’Università di Firenze: «la matrice anarco-insurrezionalista era chiara fin dall’inizio. La dinamica della rivendicazione è tipica». Come tipica è la scelta del nome delle cellula «scegliendo i nomi dei compagni in carcere». Il legame con la Grecia è forte, così come l’avversione per il nucleare. «Gli anarchici avevo già condotto azioni in Svizzera». Poi il profilo dei membri della cellula: «Hanno tra i 30-35 anni e hanno un’istruzione universitaria. Ma non hanno situazioni lavorative stabili».
IL MANAGER A CASA - Nel frattempo Roberto Adinolfi è uscito dall’ospedale San Martino di Genova: «Sto bene, sto bene. Ringrazio tutti, il peggio è passato». Il manager era visibilmente commosso quando è sceso dall’ambulanza, seduto sulla sedia a rotelle accompagnato dai figli. «Ai miei attentatori non dico nulla. Ora la cosa più importante è che il peggio è passato», ha detto entrando nel portone di casa, prima che si diffondesse la notizia della rivendicazione del suo ferimento. «Ora l’incubo è alle spalle» ha detto piangendo, e riabbracciando Mario, uno dei figli. E in seguito all’accaduto Ansaldo Energia e Ansaldo Nucleare si fermeranno almeno un’ora lunedì mattina per «dire no a qualsiasi forma di violenza, specie quella terroristica».
Antonella De Gregorio
Marta Serafini
PEZZI USCITI SUL CORRIERE L’8 MAGGIO
GIUSI FASANO
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
GENOVA — Tre colpi di pistola e un uomo che cade in ginocchio, per strada. Sono le otto e dieci di ieri mattina. Roberto Adinolfi, 59 anni, amministratore delegato della Ansaldo Nucleare, esce dal palazzo genovese in cui abita, al civico 14 di via Montello. Nota appena due tizi con il casco su una Yamaha X-Max250, proprio davanti a casa sua, una stradina in discesa. Li supera e tira dritto, ma c’è qualcosa in quei due che lo insospettisce anche perché il passeggero scende appena lui li sorpassa. Adinolfi accelera, quello fa la stessa cosa. È chiaro, a questo punto, che aspettavano proprio lui. Il manager è spaventato, sta quasi correndo quando il tizio a piedi lo raggiunge. Ha nelle mani una pistola e fa fuoco tre volte, alle spalle, mirando alle gambe. Ma è uno solo il colpo che va a segno (appena sotto il ginocchio destro) e mentre il dirigente cade alcuni testimoni vedono l’aggressore rimontare in sella e sparire dietro la curva.
È da qui che riparte la paura genovese del terrorismo. Da quest’agguato che ieri sera, sia pure senza una rivendicazione che indichi una pista precisa, fonti della sicurezza, da Roma, hanno definito «altamente simbolico» e dalla tecnica che ricorda quella delle Brigate rosse. Anche alcuni degli inquirenti genovesi si dicono convinti di essere davanti a un «chiaro atto terroristico» mentre il procuratore capo Michele Di Lecce si mantiene cauto: «È evidente a tutti che non possiamo escludere la matrice terroristica, ma questo non significa che non prendiamo in esame altre possibilità. È troppo presto per tirare delle somme».
Il pubblico ministero Silvio Franz ieri pomeriggio ha raccolto in ospedale la testimonianza di Adinolfi, in grado di rispondere anche se in mattinata ha subìto un intervento chirurgico: «Non ci ha dato elementi risolutivi per le indagini» dice però il procuratore Di Lecce. Quindi si comincia dalle informazioni base: i testimoni (fra loro un portinaio e uno dei tre figli del manager), le immagini delle telecamere, la Tokarev 7.62 di fabbricazione russa che ha sparato, le analisi scientifiche sulla moto ritrovata in una via del centro e i riflettori puntati sulla vita personale e professionale di Adinolfi. Ma a qualcuno degli investigatori, ieri pomeriggio, è venuto in mente anche un altro tassello: una lunga lettera di minacce arrivata i primi giorni di aprile nella sede Rai di Genova. Un fiume di parole spedite da Roma, battute con una vecchia macchina da scrivere e mescolate con polvere da sparo. Era un volantino che in qualche modo assolveva i grandi imprenditori «che bene o male danno da mangiare al popolo», e diceva che «noi andremo a scremare quella classe che per prima pensa al vile denaro e alla posizione». Annunciava un «botto dimostrativo» e prometteva: «Non saprete né quando né dove colpiremo». Due pagine zeppe di cattive intenzioni firmate da un fantomatico «Gruppo dei nove italiani». Analizzato dai carabinieri del Ros, quel volantino finì per essere studiato e «archiviato»: poteva essere l’opera di un mitomane, qualcuno degli investigatori ipotizzò che potesse averlo scritto gente un tempo appartenuta alle forze dell’ordine, anche perché un passaggio diceva «quattro di noi hanno indossato varie divise».
Adesso, visto alla luce dell’attentato di ieri, quella lettera è stata rispolverata dagli archivi e potrebbe diventare una possibile pista investigativa. Anche per via delle indicazioni che contiene sugli stessi autori: dicono di aver perduto uno del gruppo «passato a miglior vita» e si definiscono «un chimico, un tecnico elettronico, un informatico, un perito meccanico, tre militari, un campione di tiro e un esperto di armi».
Partendo dalle indicazioni che lo stesso Adinolfi ha dato sulle prime, e cioè «potrebbe c’entrare il mio lavoro», i carabinieri stanno facendo controlli da ieri mattina anche sui grandi appalti dell’Ansaldo Nucleare, in particolare sul progetto di ricerca Iter da 150 milioni di euro: è un lavoro (nel Sud della Francia) per la costruzione di un prototipo di reattore a fusione nucleare invece che fissione, un piano che vedrà la luce, se tutto va bene, nel 2040.
Sull’attentato è intervenuta ieri sera il ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri. «Le informazioni che abbiamo fino a questo momento escludono la pista personale» ha detto, aggiungendo poi che «questo fatto desta molta preoccupazione».
Giusi Fasano
SECONDO PEZZO DELL’8 MAGGIO
MARCO IMARISIO
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
GENOVA — All’inizio è scattato il riflesso condizionato. Chi è, cosa fa, ma soprattutto chi frequenta, quali inconfessabili segreti nasconde la sua vita. Storie di donne, oppure storie di soldi, c’è di sicuro qualcosa che non va, e queste piccole macchie di sangue sul selciato di via Montello, una stradina stretta e tortuosa nel quartiere di San Fruttuoso, davanti a una palazzina come tante, hanno per forza una spiegazione privata.
Anche Roberto Adinolfi, 59 anni, tre figli, una moglie che insegna latino e greco al liceo Colombo, cattolico osservante, a insaputa sua e dei suoi familiari è passato attraverso questa sorta di lavacro. Prima l’indagine serrata sul suo privato, poi tutto il resto, se proprio deve esserci un resto.
Non è colpa di nessuno, funziona così, ma questa ridda di false voci mattutine — vive da solo senza la famiglia, chissà cosa combina — non assolve solo a un dovere di indagine ma svolge anche una funzione di esorcismo. Tiene lontana la paura, il timore che ci sia dell’altro, che questi mesi così cupi e tesi, questa pentola a pressione sulla quale siamo seduti, possano produrre mostri nuovi, e vecchi al tempo stesso.
Solo dopo, quasi per esclusione, gli unici veri appigli per dare una possibile interpretazione ai tre colpi di pistola non arrivano dall’uomo e da suoi eventuali difetti, ma dalla funzione che ricopre. Lo ha detto lui stesso, appena uscito dalla camera iperbarica che ha scongiurato infezioni alla sua gamba ferita: «Non è un fatto personale, ma qualcosa legato alla mia carica, al mio lavoro. È l’unica cosa che mi viene in mente». Non la sua storia privata, ma il suo curriculum lavorativo e pubblico.
In questi anni Adinolfi, fisico atletico che ha trasmesso ai figli, il più grande lavora come praticante avvocato in un noto studio legale della città, gli altri due studiano ingegneria seguendo le tracce del padre, è diventato uno dei volti più riconoscibili del nucleare italiano. Non potrebbe essere altrimenti, in quanto amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, società controllata da Ansaldo Energia, che fa parte del gruppo Finmeccanica.
È considerato un vero «ansaldino», nel senso della fedeltà alla casa madre e al suo progetto. È nato in provincia di Salerno, ha studiato ingegneria a Milano. Venne a Genova per preparare la tesi di laurea, ci è rimasto fino ad oggi.
L’azienda aveva il monopolio italiano nell’attività manifatturiera del settore. Faceva le centrali, anche all’estero, con oltre duemila dipendenti. Dopo Chernobyl e il primo referendum abrogativo del 1987 cambiò pelle. Adinolfi seguì di persona lo smantellamento delle centrali di Caorso e Montalto di Castro, e quel periodo operativo di dismissione fu l’unico che lo vide allontanarsi dalla ricerca, il suo territorio preferito. Ci tornò ben presto, con la carica di direttore generale, e poi di amministratore delegato, quando il ramo nucleare di Ansaldo divenne una società vera e propria. Oggi ha 180 dipendenti, tutti altamente qualificati, e si occupa di sviluppare gli studi nel campo dei reattori di terza generazione avanzata. L’ultimo lavoro diretto risale al 2007, costruzione di una centrale a Cernavoda, in Romania.
Negli uffici di Ansaldo Nucleare, un monoblocco nella zona industriale della Valpolcevera, così blindato da sembrare zona militare, si parla del capo come di un uomo che ha fatto una scelta di coerenza. Uno che poteva andarsene, soprattutto dopo il nuovo referendum abrogativo della scorsa primavera. «Ci crede, non si è mai smarcato dal suo ruolo» confidano le persone a lui più vicine. I suoi segni particolari starebbero nello spazio riservato dalla carta di identità. Persona abbastanza schiva, cattolico praticante, impegnato con sua moglie nel volontariato. Ben inserito nella società genovese, è stato presidente di un circolo del Rotary, amante della vela senza possedere una barca, gran lettore di libri non solo scientifici. Non c’è molto altro, nessun hobby da segnalare, nessuna passione per il calcio.
La sua esposizione mediatica, sempre limitata ad articoli di giornale e convegni, appare come conseguenza del suo lavoro e di un legittimo convincimento, non della voglia di apparire. Gli inquirenti che si apprestano a recuperare tutta la sua attività pubblicistica, convinti che possa essere nella sua pubblica difesa del nucleare la ragione di questo attentato, «simbolico» fino a prova contraria, non troveranno parole esaltate, ma argomentazioni persino pignole, di difficile comprensione per i profani.
Certo, le posizioni sono nette. Intervista al Secolo XIX dopo l’esplosione del settembre 2011 nel sito francese di Marcoule, in Francia: «Le uniche occasioni dove ci interpellate sono queste: catastrofismo». Adinolfi non è però un aedo del nucleare, ma un suo studioso, legittimamente convinto della bontà della tecnologia alla quale ha dedicato la sua vita lavorativa. Quando agli albori dell’ultimo governo Berlusconi il ministro Claudio Scajola rilanciò il nucleare italiano, l’amministratore delegato di Ansaldo non mancò di mettere in rilievo le criticità del sistema, lamentando anche l’eccesso di «attenzione nazionale» che quella decisione aveva portato sulla sua azienda.
La consapevolezza di ricoprire un ruolo delicato non era unita al timore per se stesso. «Una scorta? E chi ci aveva mai pensato. Non immaginavo di averne bisogno, anche se di matti in giro ce ne sono sempre tanti». La prima reazione dopo il risveglio dall’anestesia, confidata al chirurgo che lo ha operato, è stata di sincero stupore. Il sollievo per lo scampato pericolo si è mischiato alla sensazione di qualcosa che poteva accadere, qualcosa che non si riesce a comprendere. La paura è arrivata dopo, al termine di questa strana giornata elettorale. Per l’ingegner Adinolfi, per la sua famiglia. E non soltanto per loro.
Marco Imarisio
PEZZO USCITO SUL CORRIERE DELLA SERA IL 9 MAGGIO
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
GENOVA — Parte dai cosiddetti eredi delle Brigate Rosse l’inchiesta sull’attentato a Roberto Adinolfi, il manager dell’Ansaldo Nucleare gambizzato lunedì a Genova da due uomini che lo aspettavano sotto casa in sella a una motocicletta. I carabinieri del Ros hanno individuato alcuni nomi sui quali fare accertamenti e uno di questi nelle carte consegnate ai magistrati viene collegato a personaggi già noti agli inquirenti genovesi per la vicinanza con l’eversione di sinistra. Esisterebbe un legame, in sostanza, fra una persona osservata speciale dopo l’agguato ad Adinolfi e un gruppo del quale lo stesso Ros sta monitorando i contatti dal 2009, anno in cui la Procura di Roma, con gli arresti, ritenne quel gruppo espressione delle Nuove Br: erano i genovesi Gianfranco Zoja e Massimo Riccardo Porcile e poi Bernardino Vincenzi, Bruno Bellomonte, Manolo Morlacchi e Costantino Virgilio (un altro indagato, il corniciaio Luigi Fallico, è morto). Erano tutti accusati di banda armata e associazione sovversiva ma i reati non hanno retto ai giudici di primo grado che a novembre dell’anno scorso li hanno assolti proprio per quei reati (è stato presentato il ricorso in appello) e ne hanno invece condannati alcuni per altre accuse. Fra i condannati ci sono Zoja (otto anni e mezzo) e Porcile (sette e mezzo) per un attentato dinamitardo a una caserma dei paracadutisti della Folgore a Livorno nel settembre 2006. Quell’attacco fu rivendicato da un volantino firmato «Per il comunismo Brigate rosse», ma i giudici d’assise di Roma hanno comunque ritenuto inesistente la banda armata e cambiato quel reato con la «cospirazione politica mediante accordo». Il terzo condannato, per detenzione di armi, è Vincenzi: quattro anni e mezzo. Gli altri sono stati assolti.
Ora: il Ros di Genova in un primo preliminare rapporto consegnato ai pubblici ministeri Silvio Franz e Nicola Piacente ricorda le indagini eseguite a suo tempo sulla «rete relazionale» di quegli inquisiti, in particolare i due genovesi. E chiede al procuratore Michele Di Lecce l’autorizzazione per «attività» di controllo di alcuni personaggi sospettabili per i loro contatti con gli «ambienti eversivi». Detto questo la linea della Procura genovese, che da ieri indaga per lesioni con l’aggravante della finalità terroristica, resta sempre quella: non c’è «nessuna pista privilegiata perché non ci sono indicazioni così utili da indirizzarci in modo deciso verso questa o quell’altra ipotesi».
Uno degli elementi chiave delle indagini è l’arma: una Tokarev 7,62, di fabbricazione sovietica in uso all’Armata Rossa. Il procuratore aggiunto Nicola Piacente ha detto ieri che «stiamo cercando di verificare se un’arma di quel tipo sia stata utilizzata in altri episodi, non soltanto di natura terroristica-eversiva, perché abbiamo notizia che una pistola di quel tipo è stata rinvenuta in Puglia non molto tempo fa nell’ambito di un sequestro consistente di armi». Entra in scena, quindi, anche la pista della criminalità che porterebbe verso i Paesi dell’Est, luogo di provenienza di tutte le Tokarev piazzate sul mercato nero delle armi e di buona parte delle commesse straniere della società.
E mentre le forze dell’ordine assegnano un uomo di scorta al numero uno di Ansaldo Energia Giuseppe Zampini, gli investigatori eseguono accertamenti tecnici sulla moto usata per l’agguato: non è ancora chiaro se siano isolabili possibili impronte ma si sa per certo che il sistema d’accensione è stato modificato da mani esperte. Una chiave per poterla accendere in fretta e scappare invece dei fili da collegare com’è stato fatto quando fu rubata, due mesi fa. Un altro elemento che fa pensare a gente organizzata. Capace di studiare ogni mossa prima di entrare in azione.
Giusi Fasano
PEZZI USCITI SUL CDS IL 10 MAGGIO
GIOVANNI BIANCONI
ROMA — A più di quarantott’ore dall’attentato, restano le modalità a tenere in piedi la pista del terrorismo. Senza una rivendicazione, quello che sembrava logico e scontato comincia a scolorire in ipotesi e dubbi. Lo sparo di Genova continua a essere considerato un probabile episodio di criminalità politica per via dell’obiettivo simbolico, e per come è stato centrato. Sul resto non ci sono certezze. Si confidava che una firma arrivasse, per tentare di comprendere quello che è accaduto e indirizzare le indagini; fino a ieri sera non era arrivata, e questo certo non ferma l’attività degli inquirenti. Però non l’aiuta.
Non a caso, al Quirinale, il presidente della Repubblica ha scelto la strada della prudenza per inserire l’episodio che ha risvegliato vecchi fantasmi nel discorso in memoria delle vittime della lotta armata: «Fossero pure solo le modalità dell’agguato al dirigente d’azienda genovese a richiamare il terrorismo, la risposta e la vigilanza devono essere categoriche». Nel Salone dei corazzieri, ad ascoltare il capo dello Stato c’erano il capo della polizia, il comandante generale dei carabinieri, i responsabili dei servizi di sicurezza. I loro uomini stanno cercando una soluzione all’enigma, ed essi stessi sono stati a lungo investigatori: sanno che in attesa di elementi concreti con i quali orientare il lavoro, ci si rifugia in ciò che sembra più plausibile. Matrice eversiva, quindi, ma in attesa di riscontri e conferme.
Proprio il capo della polizia, Antonio Manganelli, tre mesi fa alla Camera aveva messo in guardia dalla possibilità che tra i settori più decisi dell’anarco-insurrezionalismo qualcuno decidesse di armarsi e di sparare alle persone. Usò il termine «assassinio», il prefetto, perché era contenuto in un documento della Federazione anarchica informale/Fronte rivoluzionario internazionale, diffuso per posta elettronica e intercettato dagli investigatori nello scorso agosto. Lì si diceva che la priorità era «l’azione diretta distruttiva», qualunque fosse: «Dal lancio di una molotov all’assassinio, senza alcuna gerarchia di importanza, ogni gruppo o individuo deciderà come meglio vorrà». Nello stesso scritto si spiegava che è meglio rivendicare le proprie gesta, ma in ogni caso «un’azione distruttiva rimane pur sempre una bellissima cosa, anche se non rivendicata. E può essere fatta anche solo per il piacere di farla. Fare qualcosa di giusto fa sempre bene».
Può essere che sia andata così, che qualcuno abbia dato seguito a quell’indicazione. Ma un salto di qualità come sarebbe il passaggio dai pacchi-bomba alle revolverate (sebbene quella contro il dirigente dell’Ansaldo sia stata una sola, ed è una stranezza anche rispetto alle modalità che evocano il terrorismo) se non rivendicato diventa poco comprensibile; perché rischiare che non venga compreso? È passato poco tempo, è vero, il documento potrebbe essere ancora in viaggio. Ma più ne passa e più l’eventuale firma ritardata potrà suscitare, a sua volta, dubbi e illazioni.
La mancata sottoscrizione dell’agguato rende più complicato il lavoro di chi deve svelare il mistero, costringendolo a muoversi sulla base di congetture, ma alimenta la confusione pure negli ambienti antagonisti più radicali che, in ipotesi, dovrebbero essere i destinatari dei messaggi lanciati dal gesto compiuto. Senza capire da dove arriva lo sparo, non si sa nemmeno come commentare e reagire. Le due sottoscrizioni a distanza circolate ieri su Internet — una firmata nuovi Gap, Gruppi armati proletari, l’altra «compagno Tokarev», per richiamare l’arma utilizzata nell’attentato — sembrano il tentativo di un’attribuzione «a prescindere», seppure generica: chi è stato è stato, ha fatto comunque bene. Qualunque sia il motivo, perché «non c’è bisogno di alcuna rivendicazione per comprendere la natura di un gesto», scrive il «compagno Tokarev». Troppo poco. Soprattutto per trovare i responsabili.
Giovanni Bianconi
GIUSI FASANO
DAL NOSTRO INVIATO
GENOVA — Non un sospettato fra i tanti ma un nome (genovese) da legare a una pista precisa. Lo hanno individuato i carabinieri del Ros di Genova e lo indicano nel primo rapporto consegnato alla procura sull’agguato al manager dell’Ansaldo Roberto Adinolfi. Il Ros chiede ai magistrati dell’inchiesta «l’autorizzazione ad ascoltarne le conversazioni telefoniche» e a «circoscriverne le comunicazioni e i contatti a partire dal 1º gennaio 2012». Si controlleranno quindi i suoi tabulati telefonici degli ultimi quattro mesi. Nel motivare la richiesta di intercettazioni i carabinieri parlano di «indagini in atto da tempo pertinenti ad ambienti eversivi» con i quali l’uomo sarebbe in contatto; descrivono il suo «circuito relazionale» con i nomi storici dell’eversione di sinistra genovese; annunciano di voler riaprire il fascicolo sui cosiddetti «eredi» delle vecchie Br; ricordano di aver «accumulato» sull’argomento «una inquantificabile mole di dati»; definiscono «particolare» l’arma usata per gambizzare Adinolfi e considerano che tutto questo «sia stato senza alcun dubbio funzionale alla perpetrazione dell’attentato».
Il Ros punta con decisione, quindi, all’ipotesi eversiva e riavvolge il nastro del tempo rivedendo vecchie indagini su personaggi che hanno sicuramente a che fare con la pista vetero-brigatista ma che potrebbero avere contatti anche con quella anarco-insurrezionalista. Sono questi due dei tre filoni d’inchiesta indicati ieri nella sua informativa urgente alla Camera dal ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. La terza pista è quella commerciale, legata al fatto che l’Ansaldo Nucleare di cui Adinolfi è amministratore delegato ha sviluppato parte delle sue attività nell’est europeo.
Il ministro ha confermato la necessità di guardare indietro negli anni per cercare di risolvere il rebus del caso Ansaldo. L’ha fatto in particolare in un passaggio: «La tematica antinucleare ha sempre rivestito specifico interesse per i gruppi di matrice anarco-insurrezionalista. Nel marzo 2009 — ha spiegato — è stato diffuso sul web un documento in cui, pur in completa assenza di minacce specifiche, erano stati indicati numerosi manager di diverse società impegnate nel settore dell’energia nucleare, fra i quali anche Adinolfi». Ma anche se l’area anarchica non viene ignorata, «l’uso di un’arma» (la Tokarev, ndr), ha spiegato il ministro, sarebbe una «novità assoluta» per questi gruppi. L’ipotesi della «matrice brigatista» sarebbe invece legata alle «modalità dell’agguato, in particolare all’uso di un’arma da fuoco (la Tokarev, ndr) e la preparazione che lo ha preceduto, che sembra dimostrare una certa capacità organizzativa».
Di sicuro l’attentato di lunedì ha riattivato i «simpatizzanti» delle azioni dimostrative. I Gap, Gruppi armati proletari, hanno firmato una valutazione politica su Indymedia che parla di «violenza rivoluzionaria» e fa riferimento al manager genovese ferito invitando a non piangere «gli sfruttatori e i loro servi». Anche su Indymedia Svizzera un fantomatico «Compagno Tokarev» ha pubblicato un post per dire «non abbiamo lacrime per Adinolfi» e indicare Ansaldo Nucleare come «impresa di guerra e di devastazione di territori».
Giusi Fasano
TISCALI.IT
La rivendicazione dell’agguato al dirigente di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, con la firma del Fai, Federazione anarchica informale-Cellula Olga, certifica il “salto di qualità” dell’area dell’antagonismo armato? E’ questa la domanda alla quale dovranno rispondere gli analisti dell’antiterrorismo. C’è da capire se esiste un collegamento tra la rivendicazione inviata oggi al Corriere della Sera, cinque giorni dopo il ferimento dell’amministratore delegato della società del gruppo Finmeccanica, e gli autori del documento programmatico pubblicato sul web nell’agosto del 2011 dal Fai, Federazione anarchica informale/Fronte rivoluzionario internazionale/Cooperativa artigiana fuoco e affini (occasionalmente spettacolare)/Brigata 20 luglio, uno dei gruppi della galassia anarco-insurrezionalista ritenuto tra i più pericolosi dagli analisti del Viminale.
Lo stile delle vecchie Br - A quel documento gli analisti dell’antiterrorismo hanno dedicato molta attenzione. Si parla esplicitamente, infatti, di un salto di qualità. "Colpire con azioni" che possono andare "dal lancio di una molotov all’assassinio", è uno dei punti della strategia indicata nel documento. Un documento cui il capo della polizia, Antonio Manganelli, ha fatto riferimento ieri a proposito della pista, a questo punto più accreditata, che vi sia una matrice antagonista armata dietro il ferimento di Genova. Se fosse confermato dai riscontri di indagine sarebbe probabilmente la prima azione a mano armata del Fai, con lo stile delle vecchie Br.
I precedenti attentati - Nel documento pubblicato il 3 agosto scorso sul sito Indymedia, firmato Fai/Brigata 20 luglio, vengono tracciate le linee strategiche di azione. Al primo punto si legge l’indicazione che più aveva preoccupato l’antiterrorismo: "L`azione diretta distruttiva come elemento indispensabile e imprescindibile. Azione che può andare dal lancio di una molotov all`assassinio, senza alcuna gerarchia di importanza, ogni gruppo o individuo deciderà come meglio vorrà...". L’obiettivo annunciato nel testo è una "nuova guerriglia anarchica e nichilista, mille e mille fuochi ovunque contro il capitale". Nello stesso documento seguiva la rivendicazione dei pacchi bomba che nel marzo 2011 ha portato al grave ferimento di un tenente colonnello della Folgore, del pacco bomba che ha ferito due impiegate degli uffici della Swissnuclear, in Svizzera, ed il pacco bomba al carcere di Koridallos "in solidarietà con le nostre sorelle e fratelli delle "Cospirazione delle cellule di fuoco/FAI/ Fronte Rivoluzionario Internazionale".
Azioni rimaste impunite - Il documento, noto da diversi mesi agli analisti del Viminale, riporta comunque all’attenzione un gruppo responsabile di decine di azioni compite negli ultimi dieci anni con centinaia di plichi esplosivi e di attentati contro caserme e sedi giudiziarie. Azioni rimaste quasi tutte impunite. Il Fai/Fronte rivoluzionario internazionale è una sigla sulla quale si sono concentrate in questi anni le investigazioni di numerose procure ma i suoi aderenti continuano a non avere, almeno per ora, un volto e un nome. "Sono dieci anni - si vantano i redattori del testo - che agiamo indisturbati. Il potere colpisce a destra e manca con operazioni repressive sempre più fantasiose, ma finora nessuno di noi è mai stato colpito... Qualcuno di noi forse cadrà, ma verrà presto rimpiazzato da altri gruppi".
11 maggio 2012
CRONOLOGIA DI GQ ITALIA. IT
dicembre 2003
Operazione Santa Claus: campagna dinamitarda contro le istituzioni europee (Trichet, Europol, Eurojust e la presidenza di Romano Prodi)
26 marzo 2010
attentato alla Lega Nord (fallisce per l’innesco anticipato del pacco bomba); lettera minatoria, contenente 2 proiettili, all’inidirizzo del premier Silvio Berlusconi
23 dicembre 2010
pacchi bomba alle ambasciate della Svizzera e del Cile; intercettato pacco bomba indirizzato all’ambasciata greca
31 marzo 2011
lettera bomba negli uffici di Swissnuclear (divisione per l’energia nucleare di Swisselectric) in Svizzera
8 dicembre 2011
pacco bomba nella sede di Equitalia a Roma; intercettato pacco bomba al presidente della Deutsche Bank, Josef Ackermann a Francoforte