Michele Smargiassi, la Repubblica 10/5/2012, 10 maggio 2012
Shock a Bologna, suicida leader Pd – Il Cev non c´è più? Non si riesce neppure a dirlo. Chiunque lo conoscesse (e chi non lo conosceva, a Bologna?) sa che "il Cev c´è": questo giochino di parole era il suo marchio, anzi di più, era la sua identità, la sua ragione di esistenza
Shock a Bologna, suicida leader Pd – Il Cev non c´è più? Non si riesce neppure a dirlo. Chiunque lo conoscesse (e chi non lo conosceva, a Bologna?) sa che "il Cev c´è": questo giochino di parole era il suo marchio, anzi di più, era la sua identità, la sua ragione di esistenza. Maurizio Cevenini c´era sempre. Ovunque, in ogni modalità, tradizionale ed eccentrica, reale e virtuale, era un uomo integralmente pubblico. Che possa aver compiuto il gesto più disperatamente privato alla portata di un uomo, che lo abbia fatto nel silenzio di una notte, in un palazzo deserto, lascia sgomenta un´intera città. No, il Cev no, lui no. È come se lo avesse fatto Bologna intera, quel salto di sette piani. Perché Cevenini e Bologna si somigliavano come due gocce d´acqua. Figlio del barbiere Italo, ragazzino rosso che a quattordici anni rincorreva Berlinguer fra gli stand della festa dell´Unità per stringergli la mano, figiciotto ortodosso, comunista moderato che seguì senza fiatare tutte le svolte, tutte le Bolognine, sempre "ben orientato", sempre in linea, mai correntizio, sempre al servizio del partito. Con un sogno nel cassetto: sedersi sulla poltrona che fu di Giuseppe Dozza, il sindaco partigiano. Un sogno rincorso con pazienza cocciuta, con autostima un po´ naïf, con quell´aspirazione caparbia alla popolarità che faceva sorridere alcuni, ma che tutti gli perdonavano perché tanto sincera quanto determinata. La stessa determinazione che lo aveva fatto entrare alla clinica Villalba come centralinista per uscirne trent´anni dopo amministratore delegato. Asciutto, sempre impeccabile tranne nel capello riccio faticosamente domato, sembrava nato in completo blu di seta, il cellulare incorporato all´orecchio suonava sempre libero, perché il Cev doveva esserci per tutti. La popolarità non gliela regalava nessuno, se l´era costruita pezzo per pezzo con istintiva sapienza e quaranta ore al giorno di metodo. Padrone della Sala Rossa, in quindici anni da consigliere comunale vi celebrò cinquemila matrimoni. I suoi profili Facebook traboccano di "amici" tanto che ne aprì quattro dietro fila. Sulla tribuna del Dall´Ara era "il sindaco dello stadio", al bar Ciccio un re, nelle tivù locali un ospite fisso del salotto politico, del varietà trash con veline improbabili, del talk show sportivo. A suo agio sull´Apecar con cui batteva le periferie in campagna elettorale come sui palchi accanto a Prodi, sempre identico a se stesso, aplomb, voce bassa, mai un´offesa, e chi mai poteva provocargliela?, non aveva nemici neppure fra gli avversari politici, pacche sulle spalle con Fini, battute con Casini. Qualche invidia nel suo partito, «presenzialista», «folcloristico», «senza spessore», perché il Cev era di gran lunga il più popolare in città, più dei sindaci in carica, più del segretario del partito. Per vendere i biglietti della lotteria la Festa dell´Unità ci stampava sopra la faccia del Cev. Da outsider arrivava eterno secondo alle primarie solo perché i militanti bolognesi ancora più disciplinati di lui votano il candidato ufficiale, e poi lui stesso diceva «gli altri ne sanno più di me». Poi però alle elezioni stracciava tutti, era mister preferenze, oltre 13 mila, più di Berlusconi in proporzione ai votanti. Lui da solo era il quarto partito di Bologna, aveva in testa anche un nome di lista, "Bologna nel cuore". Ma da solo non sarebbe andato mai: «Sono un valore aggiunto», sorrideva e riversava voti a valanga nelle urne del Pd. Poi, diciotto mesi fa, quando avevano alla fine scelto lui, quando tutti erano convinti, quando Gianni Morandi già gli regalava un endorsement da amico del bar («Lui sì che si sbatterà per questa città»), quando era a un passo dal «sogno della mia vita», vestire la fascia tricolore davanti a un consiglio comunale e non solo per gli sposi, ecco quel messaggio maledetto, ecco quella "telefonata" perentoria da dentro, dal suo stesso organismo. Un´ischemia lo riporta alla sua Villalba da paziente. Forse meno grave di quel che sembra, ma il Cev prova «paura, molta paura». E rinuncia in piene primarie. Dolorosamente, ma «Bologna ha diritto a un sindaco in piena efficienza». Scelgono un altro, Merola. Cevenini lo sostiene. Dopo, il Cev c´è ancora. Almeno è quel che vedono tutti, e che crede anche lui. Riorganizza i tifosi del Bologna, si fa eleggere in consiglio comunale e anche in quello regionale, celebra matrimoni, riceve premi, torna in tivù. Ma il secondo tempo della partita non è più come il primo. Non c´è più uno scudetto da conquistare. I sogni svaniti non fanno mai il bis. Spiega il suo «autunno» in un libro dedicato alla figlia. C´è nell´aria una candidatura da onorevole, ma lui a Repubblica confessa: «Io volevo fare il sindaco». I suoi ultimi messaggi su Facebook sono tutti addii: al capitano del Bologna che lascia la squadra, al cantante Giorgio Consolini morto di vecchiaia, allo scrittore Stefano Tassinari morto di tumore. Il Cev c´era, continuava a correre, ma nessuno s´è accorto che la sua corsa s´era infilata in un tunnel ed era rimasta sola. Il Web lo piange «buono», «onesto», «per bene». Bologna continua a pensare che il Cev c´è.