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 2012  maggio 10 Giovedì calendario

L’ARTE ITALIANA E I «SALAMI» ALL’AVANGUARDIA

Pubblichiamo per gentile con­cessione dell’editore Bompiani uno stralcio del capitolo «L’Ita­lia non è in croce » (che spiega al­cune idee alla base del Padiglio­ne Italia della scorsa Biennale di Venezia) del nuovo libro di Vitto­rio Sgarbi L’arte è contempora­nea . Ovvero l’arte di vedere l’ar­te (pagg. 128, euro 12) che sarà in libreria da domani.

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A Milano, nel corso degli anni, e ben prima dell’ultimo decen­nio, ma ancora nell’ultimo de­cennio, si era definita un’idea di pittu­ra che, per la prima volta, ritornava al­la dimensione monumentale. Il Leon­cavallo è sempre stato un luogo guar­dato con sospetto perché «occupato». Quello che mi colpì quando una notte andai al Leoncavallo fu che quel cen­tro sociale era un luogo di produzione di idee e di visioni, tanto che definii quelle visioni, con un’iperbole, «la Cappella Sistina della modernità». La vicenda del Leoncavallo è stata la scintilla che mi ha fat­to pensare che la Biennale dovesse essere composta non solo del Padi­glione veneziano, all’Arsenale, ma anche di«padiglioni»radicati e stra­tificati per anni in un luogo. Qui na­sce l’idea di Librino, quartiere peri­ferico a sud-ovest di Catania, dove Antonio Presti ha coinvolto un gruppo di giovani artisti nella boni­fica della periferia della città, artisti trovati nelle borgate di Catania, pri­vi di mercato, o di una professiona­lità artistica che motivasse il loro impegno. Artisti chiamati da un committente-non committente, da un mecenate-non mecenate, che li ha invitati a liberare la loro cre­atività sui muri della città, resi, così, meravigliosi: un mondo di cerami­che, di terrecotte, di elaborazioni e scambi tra maestri e allievi su una vastissima superficie urbana. E so­no proprio queste imprese monu­mentali che mancano in un’epoca che non ha avuto «arte di Stato», che non ha avuto committenze pubbliche o grandi opere che inve­ce sono tali a dispetto del potere. Esistono artisti decisi a conquistar­si uno spazio con questa motivazio­ne: «Noi vogliamo che dalla nostra trasgressione nasca qualcosa che viva nella fantasia di tutti e che sia per tutti. E dobbiamo quindi opera­re non su un piccolo riquadro che non lascerebbe testimonianza di sé, ma su grandi superfici, in un cor­po a corpo».
Non ho dunque scelto Librino o il Leoncavallo per ragioni politi­che ma, provocatoriamente, pro­prio per questa caratteristica di «Cappelle Sistina della contempo­raneità », intendendo con ciò la sfi­da della grande dimensione, della dimensione imponente, della di­mensione che pone l’uomo di fronte ai suoi limiti. Il terribili­smo, il gigantismo di Michelange­lo fanno sentire la forza dell’arte e la forza di Dio. Esiste anche un contropotere, che è il potere dei giovani nelle strade, e che si mani­festa nella pittura ed è capace di trasformare il grigiore di una pare­te o di un muro. Nulla è più brutto delle periferie urbane e nulla è più rutilante e fantasioso dei colori dei graffitisti su un muro. Con in­venzioni anche di grande fantasia e, in alcuni casi, pericolosamente, distruttive laddove la superficie è un muro storico. In questo caso, certo, i graffiti diventano una for­ma di mortificazione della storia precedente. Quando un graffiti­sta l­avora su un muro privo di valo­re storico lavora su un muro vergi­ne, quando lavora su un muro del Cinquecento entra in contrasto con la storia che quel muro rappre­senta, esattamente come chi vo­lesse sfregiare una tela di Caravag­gio: in questo come in quel caso il vandalismo non è più perdonabi­le e la trasgressione non ha più ra­gione, ma diventa colpa grave. Fontana taglia una tela bianca e nuova, non una tela di Mantegna. Il Padiglione Italia, dunque, si è configurato in questa dimensione non misurabile e soprattutto domi­nata dalla mia mente, nel senso che ho indicato luoghi – evitando di segnalare i musei di arte contem­poranea già noti – cheavesserounca­ratterecome «diim­provviso ». Mi sem­bra che il caso di Kiefer all’Hangar Bicocca fosse perfi­no ovvio, e il caso del Leoncavallo e dellesuederivazio­ni, dalla metà degli anni Novanta in poi, fosse una se­gnalazione ineludi­bile.
È stato possibi­le proseguire que­sto percorso di re­gione in regione e arrivare in altre aree molto fertili. In Emilia-Roma­gna, in area par­mense, ho trovato altre situazioni di grande interesse, veri e propri «padi­glioni » nonsufficientementecono­sciuti, come il museo Guatelli di Oz­zano Taro. Ettore Guatelli è un mae­stro el­ementare che ha creato un ve­ro e proprio museo.
Non un museo contadino o della civiltà contadi­na, come tanti ve ne sono,con l’ara­tro, le stoviglie di rame nella stanza della cucina, gli strumenti per fila­re. Viceversa, quegli stessi oggetti, e anche altri –scatole usate,ricam­bi di automobile, candele, dentifri­ci, forme per le scarpe – sono stati composti in un delirio straordina­rio, degno di un artista surrealista, da questo maestro di scuola che ha riempito tutte le stanze di casa sua in un accumulo ordinato dalla sua mente.Queste stanze sono il«Padi­glione Italia» per eccellenza, luo­ghi dove si manifesta la fantasia del creatore, una sorta di ready made che non è legato a un singolo ogget­to, bensì a una moltiplicazione ba­rocca, a una ripetizione, a una ripro­duzione: cento scatole da scarpe, bottiglie, tappi di bottiglie, tappi a corona, sugheri disposti in un alle­stimento che punta sulla quantità e sull’accostamento,sulla sovrappo­sizione, sull’esuberanza. Chiun­que entri in questo museo ne esce sconvolto per la capacità di Guatel­li di dar vita a cose morte, inutili, da gettare. Ed è un vero e proprio mu­seo, un luogo eminentissimo della sensibilità contemporanea, nella sua libertà e anche nella capacità di ridestinare ciò che è stato usato a una nuova condizione, quella del­la contemplazione estetica. L’editore Franco Maria Ricci, che ha pubblicato libri pregiati e di valore, si è ritirato nella campagna di Fontanellato, non lontano da Parma, e nella sua dimora, in cui ha trasferito la propria biblioteca, ha costruito ambienti suggestivi. Qui ha pensato un gigantesco labirinto vegetale, un quadrato di otto ettari, 300 metri per lato, 3 chilometri di percorso di cui non si vede il profilo se non a volo d’uccello, da un ae­reo. Si deve salire in alto per vedere la struttura di questo labirinto di ol­tre sessantamila bambù di venticin­que specie diverse. Sono anni che Riccilavoraalprogettoesaràpossi­bile entrarvi e percorrerlo e persi­no abitarvi a partire dal 2013, in oc­casione del bicentenario della mor­te di Giambattista Bodoni, inciso­re, tipografo e stampatore invento­re dell’omonimo carattere a stam­pa «omologo» di Franco Maria Ric­ci. Dunque il labirinto diventerà un’attrazione turistica. Un capric­cio è diventato una realtà. Allo stes­so modo è capitato con un’altra «scultura di architettura», il Museo Guggenheim di Bilbao di Frank O. Gehry, museo che attrae come co­sa in sé, al di là di ciò che vi è espo­sto.
Un altro luogo a Parma ci ha con­dotto­inquestadimensionesurrea­le e onirica, l’enorme grotta di cula­telli di Spigaroli. Poche cose sono più sorprendenti e ammirevoli di questa grotta, che appare come l’opera di un artista d’avanguardia che abbia utilizzato quello che la produzione alimentare gli ha con­sentito. Si vedono cinquemila cula­telli, disposti in una sorta di volta ideale, che coronano gli spazi della cantinadell’AnticaCortePallavici­na, a Polesine Parmense, vicino a Zibello, l’area del culatello. Sono i culatelli prodotti e destinati ai gran­di ristoratori del mondo ma anche a eminenti personalità del mondo politico, culturale, internazionale e nazionale. Chi vede un culatello lo considera un cibo prelibato; se, però, ne vede cinquemila ne ha un effetto che potremmo definire ma­nieristico. Manella «grottadelcula­tello »non c’è alcuna finalità artisti­ca. Non è un conchiglia montata per creare una coroncina. No. I cu­latelli sono appesi così come sono e come devono essere, come art brut, senza alcuna intenzione di sorprendere, eppure, nella loro quantità, determinano un effetto di horror vacui, potentemente ba­rocco e straordinariamente fanta­sioso. Entrare in questa grotta dà la sensazione che si potrebbe avere quando si vedono i sacchi di carbo­ne di un artista molto amato dalla critica, Jannis Kounellis. Sennon­ché in Kounellis c’è l’artificio, l’in­tenzione, la volontà di fare qualche cosa che abbia un significato, nel­l’accumulazione dei culatelli no: c’è un culatello a fianco dell’altro, un salame a fianco dell’altro (per­ché vi sono anche salami e forme di parmigiano), inunacomposizione che dà senso di infinita sovrabbon­danza. In questa architettura, o de­corazione di interni, fatta di culatel­li si respirano, naturalmente, an­che odori che, insieme all’umidità del luogo,creano un’aura,un effet­to che dà ulteriori suggestioni.