Filippo Massaro, Corriere della Sera 10/05/2012, 10 maggio 2012
I MISTERI E GLI INTRIGHI DELLA CASSAFORTE PIU’ ANTICA DEL MONDO —
Fino a poche settimane fa a Siena si ragionava come un proprietario d’altri tempi: avere sempre e comunque la metà più un’azione del Monte dei Paschi, la banca più antica del mondo, fondata nel 1472 e da allora simbioticamente legata alla città. La città la possiede ma al contempo ne è posseduta, visto che l’economia cittadina ruota in gran parte attorno al Montepaschi e all’omonima Fondazione, che ha spalmato sul territorio i grassi dividendi elargiti dall’istituto: in 15 anni, Palazzo Sansedoni ha distribuito 1,9 miliardi, pari al 2% del Pil provinciale annuo, finanziando progetti che a elencarli tutti si riempiono 213 pagine di bilancio. Il legame con la banca è talmente forte che per statuto il presidente di Mps deve essere scelto tra i residenti nella provincia. Ma adesso tutto questo non c’è più. I soldi sono finiti. E le liti sono cominciate.
Da gennaio a oggi i cambiamenti sono stati enormi, e per nulla indolori. La Fondazione, indebitata per oltre 1 miliardo, ha dovuto rinunciare al totem del 51% e oggi ha in mano poco più di un terzo dell’istituto. Nel 2007 aveva un patrimonio di 5,4 miliardi; oggi ha praticamente solo le azioni Mps — valore 1 miliardo — e 350 milioni di debiti residui: fanno più di quattro miliardi andati in fumo in meno di cinque anni. In banca, usciti di scena i senesi Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, sono arrivati i «forestieri» Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. Mps soffre per la crisi economica e per le scelte dei suoi manager, come l’essersi esposta per decine di miliardi ai titoli di Stato italiani, oggi fortemente penalizzati. Ma soprattutto si trova al centro di uno scontro politico senza precedenti a Siena, dove ancora valgono sigle ufficialmente scomparse dalla geografia politica nazionale come la Margherita e i Ds: la prima, rappresentata da Gabriello Mancini, presidente della Fondazione, e dai fratelli Alberto e Alfredo Monaci, importanti nomi di quella che fu la Dc confluita nella Margherita; il secondo, rappresentato dal sindaco Franco Ceccuzzi, ex deputato Ds, e dal presidente della Provincia Simone Bezzini.
Per anni a Siena ha governato quel «groviglio armonioso» teorizzato da Stefano Bisi, cronista cittadino e Maestro venerabile, costituito da legami bipartisan, massoneria e vincoli familiari e d’amicizia. Ma era un groviglio retto sulla ricchezza e sul potere garantito dalla banca. Adesso che quel meccanismo si è inceppato — come ha raccontato domenica scorsa la trasmissione di Raitre Report — le responsabilità si rimpallano da una parte all’altra: Ceccuzzi accusa Mancini di aver dissipato il patrimonio della Fondazione indebitandosi oltre misura? Mancini sostiene di aver applicato le direttive del Comune; il sindaco vuole chiudere subito la partita dei debiti vendendo tutto il vendibile? Mancini prova a frenare, sondando anche soluzioni alternative come un’alleanza con la Equinox di Salvatore Mancuso; il Pd «area Ds» propone Profumo come presidente al posto di Giuseppe Mussari? Il Pd «area Margherita» rilancia con Divo Gronchi. Alla fine passa la soluzione Profumo, molto vicino alla prima linea del Partito democratico? Lo stesso giorno dell’insediamento del board, in consiglio comunale 6 consiglieri pd ex Margherita votano contro il bilancio, per la mancanza di 6 milioni non erogati dalla Fondazione. E per molti quel voto non è solo una coincidenza.
Succede, quando i tempi delle vacche grasse finiscono. E a farli finire è stata la scelta strategica compiuta nel 2007 dall’uomo che per un decennio è stato il dominus di Mps: Giuseppe Mussari, prima alla guida della Fondazione, poi dal 2005 a pochi giorni fa alla presidenza della banca, e ancora oggi al vertice dell’Abi. Fu Mussari — sostenuto dalla Fondazione e dalla politica cittadina — a realizzare l’8 novembre di quell’anno il blitz che fece conquistare a Rocca Salimbeni la padovana Antonveneta. Una conquista a sorpresa, e a prezzo carissimo: 9 miliardi, in contanti e senza alcuna verifica preliminare sui conti (due diligence). Ad Antonveneta il Monte guardava da tempo, e l’ex popolare — dopo la fallita scalata di Gianpiero Fiorani — era considerata la preda per eccellenza. Tanto che in pochi mesi venne comprata tre volte: dall’olandese Abn Amro per 5,7 miliardi, poi dal Santander per 6,6 miliardi; e fu proprio il colosso spagnolo di don Emilio Botin a rivendere la banca a Mussari, appena due mesi dopo averla rilevata, guadagnandoci 2,4 miliardi. L’indomani dell’annuncio Mps, che in borsa valeva 10 miliardi, ne perse subito 1, perché il prezzo venne considerato eccessivo per un istituto regionale come il Monte che pure legittimamente aspirava a diventare la terza banca italiana. Da allora Mps ha dovuto chiedere per ben due volte soldi freschi agli azionisti: 6 miliardi nel 2008 (5 di aumento di capitale e 1 di un bond convertibile «fresh» ora sotto esame della magistratura), altri 2,1 miliardi nel 2011. Per restare al 51% Palazzo Sansedoni ha cominciato a vendere ciò che possedeva oltre al Monte, poi si è indebitata. Con la crisi, la banca s’è fermata. Il polmone della Fondazione pure. E a Siena è scoppiata la guerra per le spoglie.
Fabrizio Massaro