Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 10/05/2012, 10 maggio 2012
LE DIFFICOLTA’ DI UN’INDAGINE SU UN ATTENTATO SENZA FIRMA — A
più di quarantott’ore dall’attentato, restano le modalità a tenere in piedi la pista del terrorismo. Senza una rivendicazione, quello che sembrava logico e scontato comincia a scolorire in ipotesi e dubbi. Lo sparo di Genova continua a essere considerato un probabile episodio di criminalità politica per via dell’obiettivo simbolico, e per come è stato centrato. Sul resto non ci sono certezze. Si confidava che una firma arrivasse, per tentare di comprendere quello che è accaduto e indirizzare le indagini; fino a ieri sera non era arrivata, e questo certo non ferma l’attività degli inquirenti. Però non l’aiuta.
Non a caso, al Quirinale, il presidente della Repubblica ha scelto la strada della prudenza per inserire l’episodio che ha risvegliato vecchi fantasmi nel discorso in memoria delle vittime della lotta armata: «Fossero pure solo le modalità dell’agguato al dirigente d’azienda genovese a richiamare il terrorismo, la risposta e la vigilanza devono essere categoriche». Nel Salone dei corazzieri, ad ascoltare il capo dello Stato c’erano il capo della polizia, il comandante generale dei carabinieri, i responsabili dei servizi di sicurezza. I loro uomini stanno cercando una soluzione all’enigma, ed essi stessi sono stati a lungo investigatori: sanno che in attesa di elementi concreti con i quali orientare il lavoro, ci si rifugia in ciò che sembra più plausibile. Matrice eversiva, quindi, ma in attesa di riscontri e conferme.
Proprio il capo della polizia, Antonio Manganelli, tre mesi fa alla Camera aveva messo in guardia dalla possibilità che tra i settori più decisi dell’anarco-insurrezionalismo qualcuno decidesse di armarsi e di sparare alle persone. Usò il termine «assassinio», il prefetto, perché era contenuto in un documento della Federazione anarchica informale/Fronte rivoluzionario internazionale, diffuso per posta elettronica e intercettato dagli investigatori nello scorso agosto. Lì si diceva che la priorità era «l’azione diretta distruttiva», qualunque fosse: «Dal lancio di una molotov all’assassinio, senza alcuna gerarchia di importanza, ogni gruppo o individuo deciderà come meglio vorrà». Nello stesso scritto si spiegava che è meglio rivendicare le proprie gesta, ma in ogni caso «un’azione distruttiva rimane pur sempre una bellissima cosa, anche se non rivendicata. E può essere fatta anche solo per il piacere di farla. Fare qualcosa di giusto fa sempre bene».
Può essere che sia andata così, che qualcuno abbia dato seguito a quell’indicazione. Ma un salto di qualità come sarebbe il passaggio dai pacchi-bomba alle revolverate (sebbene quella contro il dirigente dell’Ansaldo sia stata una sola, ed è una stranezza anche rispetto alle modalità che evocano il terrorismo) se non rivendicato diventa poco comprensibile; perché rischiare che non venga compreso? È passato poco tempo, è vero, il documento potrebbe essere ancora in viaggio. Ma più ne passa e più l’eventuale firma ritardata potrà suscitare, a sua volta, dubbi e illazioni.
La mancata sottoscrizione dell’agguato rende più complicato il lavoro di chi deve svelare il mistero, costringendolo a muoversi sulla base di congetture, ma alimenta la confusione pure negli ambienti antagonisti più radicali che, in ipotesi, dovrebbero essere i destinatari dei messaggi lanciati dal gesto compiuto. Senza capire da dove arriva lo sparo, non si sa nemmeno come commentare e reagire. Le due sottoscrizioni a distanza circolate ieri su Internet — una firmata nuovi Gap, Gruppi armati proletari, l’altra «compagno Tokarev», per richiamare l’arma utilizzata nell’attentato — sembrano il tentativo di un’attribuzione «a prescindere», seppure generica: chi è stato è stato, ha fatto comunque bene. Qualunque sia il motivo, perché «non c’è bisogno di alcuna rivendicazione per comprendere la natura di un gesto», scrive il «compagno Tokarev». Troppo poco. Soprattutto per trovare i responsabili.
Giovanni Bianconi