Guido Olimpio, Corriere della Sera 10/05/2012, 10 maggio 2012
IL KAMIKAZE ERA UN AGENTE CIA. COSI’ E’ FALLITO L’ATTACCO AL JET USA — È
una danza di ombre. La ballano agenti segreti, qaedisti e a volte civili inermi. I tempi sono dettati da due figure. Mohamed bin Nayef, 53 anni, capo dell’antiterrorismo saudita. Hasan al Asiri, 30 anni, il qaedista inventore delle «mutande bomba». Sono loro i protagonisti nell’intrigo del fallito attentato ad un jet Usa. L’attentatore suicida era in realtà un’infiltrato saudita. Una pedina del principe Nayef. Così, quando è giunta l’ora dell’azione, il kamikaze ha raggiunto i suoi «controllori» negli Emirati ed ha consegnato le «mutande bomba». Smacco seguito da un secondo colpo. Domenica, un drone Cia ha eliminato nello Yemen il terrorista Fahd Al Quso. I media suggeriscono che sia stato merito della «talpa», i sauditi negano. Zone grigie in un’operazione partita da lontano.
Il principe Nayef è l’artefice di un programma per il reinserimento dei jihadisti. Molti rinunciano alla lotta armata. Altri, una volta liberi, riabbracciano Al Qaeda. Pochi accettano di diventare infiltrati. Gli assi di Nayef. L’organizzazione di Osama ne è consapevole e prova a vendicarsi. Il 27 agosto 2009 Abdullah al Asiri, fingendo di arrendersi, ottiene un incontro con Nayef. Prima del colloquio lo perquisiscono ma non trovano nulla perché il terrorista ha celato la micro-bomba nel retto. Un ordigno costruito dal fratello, Hasan al Asiri. Non appena è nella sala riunioni, il kamikaze lo attiva. Del terrorista resta il tronco. Nayef riporta lievi ferite. Allah, quel giorno, era con lui.
La sfida prosegue, nessuno dimentica. Al Asiri riprova a colpire con il primo attacco con le «mutande bomba» nel Natale 2009. Azione affidata ad un giovane nigeriano che prende di mira un jet Northwest. L’innesco non funziona, lo arrestano. Al Asiri tenta ancora spedendo delle cartucce per stampante piene d’esplosivo su aerei cargo. Ma un’informatore lancia l’allarme. Le bombe sono scoperte. L’artificiere diventa a sua volta un target, gli Usa cercano di ucciderlo almeno tre volte. Lo danno per incenerito in un raid, invece ha dribblato la morte. Hasan è fortunato come il suo nemico Nayef. E poi nel «dipartimento esplosivi» non è da solo: «Non è divertente che lo pensino?», ironizza Al Qaeda preparando altre sorprese. È la storia di queste ore. Modificano le mutande bomba, le dotano di due detonatori per impedire errori tecnici. Vogliono ricordare la morte di Bin Laden con una strage. Nayef lo scopre con mesi di anticipo e ordina al suo infiltrato di offrirsi come volontario. Forse per convincerli mostra dei documenti «puliti» (o occidentali?) che lo rendono adatto alla missione. I qaedisti lo addestrano nel sud dello Yemen mentre lui li spia. È possibile che tra i suoi contatti ci sia Al Quso, non al Asiri molto prudente con le reclute. A fine aprile il meccanismo del «complotto» accelera.
Gli agenti sauditi avvertono la Cia. L’infiltrato riceve l’ordigno e raggiunge Dubai dove — il 20 aprile — consegna le mutande bomba agli 007 sauditi. La talpa è trasferita in un posto sicuro mentre la bomba arriva nei laboratori Fbi. Cucita negli indumenti, non ha parti in metallo e contiene circa 400 grammi di esplosivo: i tecnici la sottopongono a test per capire se poteva superare i controlli.
Il caso ha una coda velenosa. I repubblicani insorgono per la fuga di notizie, accusano la Casa Bianca di cavalcare la vicenda per calcoli elettorali. Invocano un’inchiesta. Neppure i sauditi sono contenti, ma ci tengono a prendersi il merito. Al Asiri osserva da lontano. E pensa ad un nuovo obiettivo. Se non lo uccideranno prima.
Guido Olimpio