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 2012  maggio 10 Giovedì calendario

IL CREDIT CRUNCH? CHIEDETE ALL’EBA

La soluzione alla crisi è la crescita. Su questo concordano praticamente tutti. Persino i tedeschi. Il problema è che per crescere servono finanziamenti. Soprattutto alle imprese. Ma l’erogazione del credito alle aziende in Italia continua a essere debole.
«Hanno chiuso i rubinetti, hanno smesso di fare le banche», ha denunciato qualche tempo fa con enfasi Mauro Fancelli, presidente della Confederazione nazionale artigianato Piccola e media impresa di Firenze.
Gli stessi banchieri riconoscono il problema. «Non solo abbiamo ridotto i nuovi crediti. Ma lo stiamo facendo furiosamente», ammette un alto dirigente di uno dei cinque maggiori gruppi bancari italiani.
I dati segnalati da Mauro Fancelli per la propria Regione sono drammatici: «Nel primo trimestre del 2012 il sistema bancario ha erogato alle imprese toscane il 33,5% in meno dello stesso periodo del 2011. Il Monte dei Paschi di Siena, istituto leader della regione, ha registrato addirittura un calo del 70 per cento».
Nel resto d’Italia è poco meglio. Il banchiere conferma: «Qui non solo non si eroga quasi più a nessuno, ma si sta cercando di rientrare». E a essere più colpiti sono i clienti virtuosi: «Poiché non riusciamo a rientrare con i clienti in difficoltà, siamo costretti a farlo con quelli che stanno meglio. Quelli che pagano. È una follia».
«Il peggio della stretta creditizia dobbiamo ancora vederlo», avverte un secondo top manager di un altro istituto dei cinque maggiori in Italia.
Con questa inchiesta, il Sole 24 Ore ha voluto cercare il perché di quel fenomeno spesso definito con due paroline inglesi che, assieme a spread, sono ormai comuni anche nelle chiacchiere al bar: credit crunch – o stretta creditizia.
«Le banche non hanno motivi strutturali per non dare più credito. Non sono certo saltate le loro reti commerciali dedicate alla sua erogazione», spiega un alto funzionario di un’istituzione finanziaria non bancaria. «Se la rete si è bloccata non è stato per un cambiamento di vocazione delle banche. È piuttosto il risultato di vincoli molto rigidi introdotti nel momento sbagliato, e cioè imposti in una congiuntura macroeconomica in cui ci sarebbe bisogno di maggiore offerta di credito. Di incentivi, non di restrizioni».
Il riferimento è a una singola misura che, interpretando un segnale di origine politica provenuto dal Consiglio europeo prima ed Ecofin poi, ha di fatto ingiunto alle banche vincoli patrimoniali senza precedenti con una tempistica da castigamatti. Parliamo dalla Eba/REC/2011/1, e cioè la raccomandazione numero 1 del 2011 dell’Autorità bancaria europea (Eba). Che pur non essendo un obbligo di legge, cioè una normativa formale, è divenuta un obbligo di mercato, cioè preteso da investitori e agenzie di rating.
In calce a questa misura non c’è una firma teutonica, bensì quella italianissima di Andrea Enria, il dirigente di Banca d’Italia che nel marzo 2011 è stato scelto per presiedere l’organo di vigilanza bancaria dell’area economica europea.
All’indomani della crisi del debito sovrano, l’obiettivo della raccomandazione era più che ragionevole: aumentare il livello di capitalizzazione delle banche per rassicurare i mercati sulla loro capacità di fronteggiare ulteriori shock economici con un’adeguata posizione patrimoniale. La richiesta alle 71 maggiori banche europee (tra le quali le italiane UniCredit, Intesa Sanpaolo, Monte Paschi di Siena, Ubi e Banco Popolare) era duplice: entro il 30 giugno non solo avrebbero dovuto costituire un buffer, o cuscinetto, di capitale "eccezionale e temporaneo" a copertura dalla loro esposizione sui titoli di Stato, ma dovevano portare il cosiddetto Core Tier 1, cioè la parte più nobile e liquida del proprio capitale, oltre la soglia minima del 9 per cento. Una terapia da cavallo, visto che fino a quel momento era previsto che il coefficiente del Core Tier 1 richiesto al 30 giugno 2012 dovesse essere meno della metà.
Questa misura di fatto rovesciava l’ottica di vigilanza prudenziale, che è quella di porre un limite minimo vicino al quale una banca viene considerata problematica, imponendo invece un target in Italia difficile da raggiungere per quasi tutti. Dei cinque maggiori gruppi bancari nazionali solo Intesa raggiungeva, a malapena, i requisiti richiesti. Le altre quattro registravano quasi 15 miliardi di shortfall, cioè di buco. Anche a causa delle forti minusvalenze nei titoli di Stato. Come quelle spagnole, le banche italiane erano dunque colpite sia sul fronte del coefficiente patrimoniale che sul buffer contro l’esposizione al debito sovrano.
Come ha fatto notare sul nostro stesso giornale Stefano Caselli, docente di Economia dei mercati finanziari alla Bocconi, da un punto di vista astratto l’esercizio dell’Eba aveva una sua logica (anche se c’è chi ritiene che il vero problema delle banche sia l’eccessiva leva e non la scarsa capitalizzazione), «ma un esperimento nato in laboratorio deve fare i conti con la realtà del ciclo economico».
E non si può certo dire che la misura dell’Eba sia uscita bene dall’esame con l’economia reale. Perlomeno non in Italia. «La raccomandazione si è rivelata non solo un vero disastro per la nostra economia, ma una grandissima ipocrisia», denuncia un ex dirigente di Banca d’Italia, che come gli altri chiede l’anonimato. «Perché l’Eba non può imporre misure straordinariamente restrittive sui capitali e poi dire, come ha detto, che banche e autorità di vigilanza nazionali debbono assicurarsi che il flusso di crediti verso l’economia reale sia garantito. È come se un allenatore costringesse un suo atleta a correre la maratona a gambe legate e poi annunciasse al mondo di aspettarsi un tempo da record».
In un’audizione al Senato italiano del primo febbraio scorso, Enria ha sostenuto che l’Eba è impegnata a evitare che «l’esercizio di ricapitalizzazione sia causa di un ulteriore impulso alla contrazione del credito», aggiungendo che «solo limitate riduzioni degli attivi saranno consentite per soddisfare» i requisiti dell’Authority europea.
«Questo è assolutamente falso», denuncia uno dei due top bankers. «C’è stata una forte pressione sugli organi di vigilanza nazionali da parte dell’Eba affinché tra le misure per arrivare al 9% non si facesse mai alcun riferimento a una riduzione degli impieghi, termine il cui uso è stato di fatto proibito. Ma è solo una questione di facciata: in realtà sin dai primi mesi del 2012 non eroghiamo più niente di nuovo. Perché quella è una delle due misure che più ci permettono di avvicinarsi di corsa al target improvvidamente imposto dall’Eba».
Nella sua raccomandazione l’Eba suggeriva alle banche di utilizzare in prima istanza risorse private. Quindi innanzitutto l’aumento di capitale. Ma per via delle condizioni del mercato e di alcune restrizioni specifiche (la fondazione del Montepaschi non vuole cedere il controllo e Ubi e Banco Popolare sono istituti ad azionariato popolare quindi chiusi a un qualsiasi grande investitore), in Italia quella strada è risultata praticabile solo per UniCredit. Che peraltro l’ha pagata a caro prezzo. Altre misure dello stesso genere – come la mancata distribuzione degli utili o le restrizioni di bonus aziendali – avrebbero avuto un impatto quasi insignificante. E viste le attuali condizioni del mercato, lo stesso valeva per il cosiddetto asset/credit disposal, cioè il trasferimento di beni o crediti.
Le uniche due misure di grosso impatto erano "l’ottimizzazione degli attivi di rischio ponderato" e "l’utilizzo a fini regolamentari di modelli interni per il calcolo dell’assorbimento patrimoniale dei rischi di mercato e dei rischi di credito".
«Fuori dal linguaggio in codice, con quei termini si parla di stretta creditizia e artificio contabile», spiega la nostra fonte. «Per tutti noi l’ottimizzazione del rischio ha significato il contenimento, o addirittura il recupero del credito, in altre parole la chiusura dei rubinetti o peggio il rientro dai fidi concessi. E l’adozione di nuovi modelli interni non ha fatto altro che permetterci di computare gli stessi rischi con parametri diversi. È stato dunque un esercizio puramente contabile, perché con i nuovi modelli interni, seppur misurato in modo diverso, il rischio è rimasto esattamente lo stesso. E l’ulteriore ipocrisia, è che tutti – autorità di vigilanza incluse – questo lo sanno».
Il secondo banchiere conferma: «Il nostro piano di adeguamento ai nuovi requisiti Eba è fatto per un terzo dalla revisione dei modelli interni, che ha significato un cambio di denominazione dei fattori ma gli stessi fondamentali, e un altro terzo dal deleveraging, cioè dalla stretta creditizia. Tra l’altro, il deleveraging fatto di corsa ha peggiorato la qualità del portafoglio. Perché si esce da crediti sani. Dovendo chiedere soldi a chi te li può dare, tu esci da dove dovresti invece rimanere».
Le enormi difficoltà incontrate nel raggiungere i target della raccomandazione Eba contribuiscono anche a spiegare come mai gli istituti italiani che hanno fatto ampio ricorso ai fondi offerti dalla Bce a dicembre e febbraio a tassi superagevolati non abbiano messo in circolo quei capitali. «Quei fondi non li teniamo in pancia tanto per far reddito, quanto per rispettare il vincolo dell’autorità. Perché anche chi di noi rientra nei requisiti, se comincia a impiegare in modo serio, finisce con lo sforare».
In teoria uno sforamento non avrebbe conseguenze. Perché quella dell’Eba è una semplice "raccomandazione", non una regola di vigilanza. Ma in pratica per le agenzie di rating è come se lo fosse. Tant’è che Moody’s ha già inviato lettere alle banche avvertendole del rischio di downgrade nel caso cuscinetto e coefficiente richiesti dall’Eba non siano raggiunti.
«La crisi viene senza dubbio dal mercato e da fattori di debolezza delle banche, ma anziché fare quello che hanno fatto i loro equivalenti americani, e cioè favorire una politica fortemente espansiva che corregga il problema, i politici e i regolatori europei hanno preso misure che lo hanno drammaticamente esasperato. E adesso siamo in un vero pasticcio», conclude una delle nostre fonti. Secondo la quale una marcia indietro dell’Eba è tanto essenziale quanto impensabile. La decisione a suo dire non può che venire dalla leadership politica.
Il Governo italiano finora non si è esposto. Probabilmente anche per via della forte ostilità che ha l’opinione pubblica nei confronti degli istituti finanziari. Ma tutti i nostri interlocutori concordano su una cosa: se le banche non saranno rimesse nelle condizioni di fare le banche, tutti gli sforzi e i sacrifici finora fatti risulteranno vani.