Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 09/05/2012, 9 maggio 2012
RICORDO DI GIUSEPPE TUCCI LO STUDIOSO E L’ESPLORATORE
Durante una breve permanenza in Afghanistan mi ha sorpreso la fama di cui gode ancora oggi l’esploratore italiano Giuseppe Tucci, che negli anni Cinquanta condusse importanti scavi archeologici nel Paese e nella valle dello Swat, in Pakistan. Ho saputo che il suo rientra tra i casi che più hanno contribuito a rendere elevata l’immagine dell’Italia nel campo delle scoperte archeologiche in Oriente. Ne può fornire un profilo?
Ferdinando Fedi
Lucignano (Ar)
Caro Fedi, sulle doti e sulle virtù dello studioso vi sono molte persone che possono parlare di lui con maggiore competenza. Posso dirle tuttavia quali impressioni abbia tratto dai nostri incontri e della lettura di alcuni suoi libri. Fu una sorta di Mozart della filologia antica. Uno dei suoi primi saggi, pubblicato da una rivista tedesca, fu scritto in latino, all’età di diciassette anni. Quando venne chiamato alle armi nel 1915 portò con sé, nelle trincee, i libri del pensiero filosofico indiano. Era un genio insaziabile, attratto ora dall’India, ora dalla Cina, ora dalla Persia, ora dall’Afghanistan, ma soprattutto dal Tibet. Quando fu chiamato a fare parte dell’Accademia d’Italia aveva 36 anni e, alle sue spalle, dieci anni d’insegnamento nelle università indiane. Insegnò molto anche in Italia, ma non amava le università, troppo vecchie, impettite, sussiegose. Il suo metodo preferito, nel campo degli studi, era il viaggio. Non fu mai un «topo di biblioteca». Quando volle capire la cultura religiosa del Tibet organizzò spedizioni e si mise in marcia come un esploratore attraverso territori poco noti e studiati. Nel volumetto pubblicato dall’Ismeo dopo la sua morte con un ricordo di Raniero Gnoli (studioso di sanscrito e fratello di Gherardo) vi è una sua fotografia, scattata in occasione di uno dei primi viaggi: un bel giovane coi capelli al vento, calzoni alle ginocchia, scarponi e calzettoni, le mani in tasca, un bastone da passeggio e uno sfolgorante sorriso. Nella versione inglese del suo «Viaggio in Mustang» del 1952, pubblicata nel Nepal, vi sono dozzine di fotografie (ne scattò parecchie migliaia) e una in particolare che lo ritrae mentre ascolta la poesia che il maggior poeta locale sta recitando in suo onore. Lo amavano perché ammirava i loro costumi, parlava la loro lingua, conosceva i loro classici e partecipava come un devoto alle loro cerimonie religiose. Era divenuto buddista? È una domanda a cui non posso rispendere. Ma credo che in Tucci vi fosse una capacità camaleontica di identificarsi completamente con i popoli dei suoi viaggi e le materie dei suoi studi.
Aveva un’altra dote. Era uno straordinario organizzatore di ricerche e spedizioni archeologiche. Donatella Mazzei, direttrice per molto tempo del Museo d’Arte Orientale di Roma intitolato al nome di Tucci, mi ha scritto negli scorsi giorni per segnalarmi alcune delle missioni di cui il fondatore dell’Ismeo fu direttamente o indirettamente patrono: «In Pakistan, dove i complessi religiosi scoperti nella valle del fiume Swat sono stati indagati da Domenico Faccenna con una metodologia che costituisce modello a livello mondiale per gli studiosi dell’arte del Gandhara; in Afghanistan, dove a Ghazni è venuto alla luce il palazzo del sovrano ghaznavide Mas’ud III, degli inizi del XII secolo (sotto la direzione di Umberto Scerrato) e l’importante sito tardo-buddista di Tapa Sardar (sotto la direzione di Maurizio Taddei); in Iran, dove, accanto al complesso palaziale achemenide di Dahan-e Ghulaman, è stata riportata alla luce una città del III millennio a. C. (sotto la direzione di Maurizio Tosi)».
Alcuni reperti provenienti da questi scavi sono nel museo di cui Donatella Mazzei è stata direttrice. Le consiglio una visita alla prima occasione.
Sergio Romano