ALBERTO PAPUZZI, La Stampa 9/5/2012, 9 maggio 2012
Anni di piombo la normalità del male - Era normale. Al mattino presto o a tarda sera essere fermati ai posti di blocco
Anni di piombo la normalità del male - Era normale. Al mattino presto o a tarda sera essere fermati ai posti di blocco. A notte vedere il centro semideserto, con il traffico che scappava via veloce. Sentire l’elenco di uomini politici, dirigenti d’azienda, magistrati, giornalisti, poliziotti, uccisi o gambizzati. Era normale vivere, lavorare, andare (in pochi) a teatro o al cinema, trovarsi con gli amici, scioperare e manifestare in una città che era sotto tiro, dove nessuno poteva più dirsi al sicuro. Per quanto oggi, giornata dedicata alle vittime del terrorismo, sembri incredibile, ci si era abituati a convivere con gli attentati. Questa era la Torino dove 35 anni fa l’avvocato civilista Fulvio Croce, quasi 76 anni, presidente dell’Ordine, veniva assassinato dalle Brigate rosse nel portone dello studio. «Avvocato!», lo chiamò il killer, e gli sparò alle spalle. Tra il 1977 e il 1982 si contarono a Torino quasi centocinquanta vittime dei terroristi: 19 morti e 130 feriti. I due gruppi che tenevano la città sotto assedio erano le Brigate Rosse e Prima Linea. Le prime avevano radici più fitte fra gli operai e nelle fabbriche, nella seconda prevalevano i figli della borghesia. Ma uguale appariva la violenza degli agguati, negli androni, sui marciapiedi, alla fermata del bus, o sulle auto delle vittime. E uguale la strategia: colpire soprattutto figure che operavano in difesa della democrazia, figure che volevano salvaguardare le istituzioni. Perciò Croce venne ammazzato: perché era un gentiluomo liberale che aveva ritenuto suo dovere fare con un gruppo di colleghi da lui stesso indicati il difensore d’ufficio dei brigatisti, affinché anch’essi si avvalessero di un processo rispettoso delle regole. Il processo contro le Brigate Rosse si aprì il 17 maggio 1976, nel vecchio e malandato Palazzo di Giustizia del capoluogo piemontese, in uno scenario confuso e un po’ deprimente, con gli imputati in gabbie di fortuna, circondati da una schiera di carabinieri. È in quella prima udienza che gli imputati revocano il mandato ai difensori di fiducia e successivamente rifiutano i difensori d’ufficio, minacciandoli di morte. All’epoca i brigatisti si erano già resi colpevoli del sequestro del magistrato Mario Sossi (Genova, aprile ’74) e dell’assassinio di due militanti missini (Padova, giugno ’74). Dopo l’avvio del processo ci fu l’uccisione di Francesco Coco, procuratore generale di Genova, con due carabinieri della sua scorta (Genova, giugno ’76). Quindi nelle more della vicenda processuale, mentre si cerca una soluzione al problema delle difese d’ufficio, in una livida Torino, il 12 marzo 1977, viene ucciso sotto casa il brigadiere di polizia Giuseppe Ciotta. Meno di due mesi dopo toccherà a Croce. Altri sei mesi più tardi è la volta di Carlo Casalegno. Un elemento pesa come una cappa sull’intera vicenda: non è soltanto la paura, che provoca centinaia di rifiuti o giustificazioni (per sindrome depressiva) sia tra gli avvocati chiamati a difendere d’ufficio sia fra i cittadini candidati a giudici popolari; ciò che impressiona è il distacco con cui una parte del mondo operaio guarda a queste morti. Come se dovessero riguardare solo i ceti borghesi. Documento degli anni di piombo è lo slogan «Né con lo Stato né con le Br», fatto proprio da un intellettuale come Leonardo Sciascia. Dentro una tragica scia di morti (Berardi, Cutugno, Lanza e Porceddu, Coggiola, Iurilli, Civitate, Ghiglieno) bisogna arrivare nel 1979 all’assassinio di Guido Rossa, operaio comunista e delegato sindacale all’Italsider di Genova (che denuncia chi distribuiva in fabbrica volantini dei brigatisti), perché anche nelle officine, segnatamente in quelle torinesi, si diffondesse la consapevolezza che Brigate rosse e Prima Linea erano nemici della democrazia e della libertà. Nel maggior polo industriale italiano, un nucleo di società civile che non tradiva le proprie responsabilità oppose un’esemplare resistenza a chi ideologizzava la violenza per colpire la democrazia. Come si vede nel film (di Bronzino e Melano), il commando Br che uccide Croce (Rocco Micaletto, Lorenzo Betassa, Raffaele Fiore e Angela Vai) in realtà fallisce nel suo scopo, perché è proprio il sacrificio di quel mite borghese a risvegliare le coscienze.