Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano 8/5/2012, 8 maggio 2012
GENOVA NEL MIRINO COME NEGLI ANNI SETTANTA
Forse non gliel’hanno detto, agli apprendisti stregoni, che l’Ansaldo Nucleare è solo una media azienda da 200 dipendenti. Che di quel colosso - che trent’anni fa metteva in campo migliaia di tecnici e ingegneri e doveva riempire la penisola di otto centrali atomiche - adesso è rimasto solo il cosiddetto presidio: uno sparuto drappello per il quale ogni giorno Roberto Adinolfi deve inventarsi il lavoro, trovare il pretesto di mercato per tenere accesa la fiammella nucleare italiana. A oggi la realtà di Ansaldo Nucleare è la costruzione dell’unica centrale atomica della Romania, la collaborazione a una centrale in Cina, qualche commessa con la Sogin per lo smantellamento delle centrali italiane (a 25 anni dal referendum dell’87 siamo ancora ai preparativi). E poi c’è un contratto per il progetto europeo di sviluppo della fusione nucleare.
A chi ha pianificato con cura la pistolettata nella gamba di Adinolfi non dev’essere arrivata neppure la notizia che l’amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, considera Ansaldo Nucleare un fossile di nessun interesse industriale, nè tanto meno strategico, e quindi l’ha messa in vendita insieme a tutto il blocco nominato Ansaldo Energia. E del resto, se qualcuno ha creduto di individuare in Adinolfi l’uomo simbolo della potente lobby nucleare, non ha fatto caso a una curiosa peculiarità: è l’unica lobby che riesce a perdere tutti i referendum.
IL FATTO è che chi decide di usare le armi va per prima cosa in cerca di simboli, di citazioni, di precedenti, di evocazioni, di copioni da ripetere con precisione rituale, e maniacale. E Genova sembra il teatro naturale per questa rappresentazione, incredibile da ogni punto di vista, salvo uno: oggi la situazione economica e il disagio concreto dei ceti più poveri sono peggiori che negli anni di piombo.
E quindi avanti con le evocazioni. La prima, il nome Ansaldo. Storicamente la più potente azienda italiana, potente come forse neppure la Fiat è mai diventata; potente al punto da influenzare la scelta italiana di entrare nella prima guerra mondiale, impresa per la quale le fabbriche genovesi hanno fornito di tutto, dai treni ai cannoni, alle navi. Alla fine del conflitto 15-18 l’Ansaldo aveva 500 mila dipendenti. Finite le commesse militari è andata a gambe all’aria, trascinandosi dietro le maggiori banche italiane. È per l’Ansaldo che nacque l’Iri, e dall’Ansaldo discesero l’Italsider, la Fincantieri e la Finmeccanica.
E così i manager dell’Ansaldo (manager pubblici, quindi), con quel marchio indelebile di servi del grande capitale che anni di partecipazioni non sono bastati neppure a sbiadire un po’, sono stati tra i primi a trovarsi nel mirino della violenza brigatista. Nomi quasi dimenticati , come Vincenzo Casabona o Giuseppe Bonzani. O persone già allora molto note, come Carlo Castellano, un intellettuale, direttore della pianificazione ma anche docente universitario, e, colpa gravissima, comunista. Gambizzato in modo feroce, con otto colpi a segno che l’hanno costretto a peregrinare per anni nei reparti chirurgici.
SI RIPROPONE dunque, a oltre trent’anni di distanza, il rituale della gambizzazione del manager Ansaldo. Come se il tempo non fosse passato. Come se Adinolfi, insieme al capo di Ansaldo Energia, Giuseppe Zampini, non fosse impegnato in una battaglia contro la finanziaria proprietaria, la Finmeccanica, per difendere la tradizione dell’industria genovese incarnata nel marchio Ansaldo, e con essa i posti di lavoro di oggi e le prospettive di un futuro industriale per le nuove generazioni. Nucleare o non nucleare. Ma l’importante è rinnovare il rito. Gambizzare, cioè dare una lezione. Colpirne uno per educarne cento. Secondo modalità consolidate.
Intanto lo scooter. Perché a Genova le strade sono strette, tutte curve, in salite o discese ripidissime, se scappi in macchina ti prendono subito. Per ammazzare Guido Rossa, l’operaio comunista dell’Italsider colpevole di aver denunciato il collega brigatista Francesco Berardi, fecero addirittura tutto a piedi, perché il poveretto abitava a due passi dal covo Br. Ma è uno scooter il protagonista della storia fondante del brigatismo genovese. Nel 1971 il portavalori dell’Istituto Case Popolari Alessandro Floris fu rapinato e poi ucciso da due appartenenti all’organizzazione protobrigatista “XXII marzo”. I due assassini furono presi e processati. Il pubblico ministero era Mario Sossi, che per questo fu rapito, con richiesta di scambio di prigionieri, cioè di liberazione di alcuni brigatisti. Il procuratore generale Francesco Coco si oppose alla scarcerazione di brigatisti, e per questo fu ucciso, nel 1976, insieme agli uomini della scorta, prima esecuzione sommaria rivendicata dalle Br. Floris morì per colpa di una Lambretta difettosa, sulla quale i due rapinatori cercavano di fuggire. Il motore si spense, il portavalori corse dietro ai due rapinatori (per difendere il denaro dell’Istituto Case Popolari) e quello che stava seduto dietro, tale Mario Rossi, decise di farlo secco. Dopo 41 anni si ripete il rito della fuga in scooter. Niente Lambretta, però: un potente scooterone giapponese. L’unica cosa moderna in tanta stupida violenza.