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 2012  maggio 08 Martedì calendario

IL TERRORISMO RIPARTE DA GENOVA


Genova, sempre Genova! Come dice la canzone? Noi che abbiamo visto Genova e il sole è un lampo giallo sul parabris, sul parabrezza dell’utilitaria. Noi eravamo piemontesi terragni che amavano il mare e dunque Genova. Quante volte ci sono tornato e quante volte ne ho scritto. Spesso su questioni di terrorismo rosso, di gente che accoppava i cristiani e poi finiva accoppata. Nei decenni ci sono immagini rimaste intatte. A cominciare dalla motoretta, più o meno simile a quella che ieri è servita per gambizzare l’amministratore delegato dell’Ansaldo Nucleare. C’era una motoretta all’origine della lotta armata a Genova, un cancro emerso prima delle Brigate rosse. Nell’ottobre 1970, un gruppo di teste calde, che si credevano comunisti rivoluzionari, fondarono una struttura clandestina. Aveva per nome la data della sua nascita, il 22 ottobre. Nessuno di loro era un intellettuale, niente tipi alla Renato Curcio cresciuto nell’Università di Trento. Si trattava di proletari pressoché illetterati, ma pronti ad «alzare il tiro», come si usa dire oggi.
Li guidava un certo Mario Rossi, anni 32, imbalsamatore di animali. Affiancato da un elettrotecnico, Augusto Viel, anni 30. Erano faticoni senza soldi e privi di finanziatori eccellenti. Pensarono di collegarsi con i Gap di Giangiacomo Feltrinelli. Però l’editore con i baffi doveva essere un riccone dal braccino corto e poco propenso a sganciare un po’ di milioni.
Fu così che la prima impresa della XXII Ottobre fu un sequestro di persona per autofinanziarsi. Pensarono di rapire il figlio di una ricca famiglia genovese, Sergio Gadolla. Gli andò bene e incassarono un riscatto cospicuo. Ma darsi da fare nella clandestinità risultava costoso. E allora decisero di compiere una rapina.
Il giorno fatale fu il 26 marzo 1971. Qualcuno li aveva informati che quel giorno, vigilia del 27 del mese, un commesso dell’Istituto autonomo case popolari di Genova avrebbe prelevato in banca gli stipendi dei dipendenti dello Iacp. Due dei terroristi salirono su una motoretta e strapparono la borsa al fattorino, Alessandro Floris. Poi fuggirono a tutto gas.
Il Floris era un tipo coraggioso e tentò di afferrare la caviglia del passeggero della motoretta. Si trattava del Rossi, mentre alla guida del veicolo c’era il Viel. Rossi si voltò e sparò al portavalori. Lo beccò in pieno. Colpito a morte, Floris crollò a terra e andò all’altro mondo. Di quel delitto rimase un documento fotografico ormai di valore storico, scattato per caso da un dilettante.
Eccola qui la foto. Si vede il Rossi, a viso scoperto, mentre si gira, punta la rivoltella contro il Floris e gli spara. Il commesso portavalori finisce a terra, raggiunto dalle pallottole del revolver. Subito dopo la motoretta farà un balzo in avanti e sfuggirà all’obiettivo del fotografo.
Per la cronaca, Rossi si beccò l’ergastolo. Gli altri della XXII Ottobre si videro rifilare un pacchetto complessivo di 180 anni di carcere. Più complessa la sorte di Viel. Subito dopo il delitto, Feltrinelli lo nascose a Milano. Poi gli consegnò un passaporto falso e lo accompagnò a Praga, dove rimase al sicuro per un po’ di tempo.
Adesso, decenni dopo, ma sempre a Genova, appare un’altra motocicletta, sempre con due a bordo. E con il passeggero che spara addosso all’amministratore dell’Ansaldo nucleare, Roberto Adinolfi. I colpi sono tre e soltanto uno va a segno. Il manager viene colpito a una gamba e si accascia. Verrà operato in un ospedale della città, ma dovrebbe cavarsela.
Al tempo del terrorismo era venuto di moda un neologismo orrendo: gambizzato. Con una variante, persino più cinica: invalidato. Mi dà la nausea dover usare di nuovo questa parola. Che cosa significa il ritorno a retromarcia della storia? A insidiarci emergono cattivi pensieri. Di nuovo Genova con il tetro corteo di fantasmi che sembravano svaniti.
Arretrando nel calendario, s’incontrano vicende dimenticate. Nel 1974 il sequestro del giudice istruttore Sossi, la prima operazione brigatista di lunga durata. Nel 1976 l’assassinio del Procuratore generale Coco. Nel 1977 l’attentato a Carlo Castellano, con una gamba straziata da una raffica di colpi. Nel 1979 l’assassinio dell’operaio comunista Guido Rossa. Nel 1980 l’assalto alla base brigatista di via Fracchia, scoperta dai carabinieri del generale Dalla Chiesa, e risolto con quattro terroristi uccisi.
Perché sempre Genova? Forse nei sotterranei di questa capitale da tempo in crisi si agitano demoni pronti a dannarsi e a dannare. Quando due in motoretta sparano a colpo sicuro contro un signore inerme che va in ufficio, il retroterra è facile da intravedere. Come era accaduto con Rossi e Viel, che avevano alle spalle i tupamaros di periferia: ignoranti al cubo, ma innamorati di Carlos Marighella e del suo «Manuale per la guerriglia urbana».
Alle spalle dei due gambizzatori odierni qualcuno esiste di certo. Non è un lavoro di pochi individuare l’obiettivo, pedinarlo, scoprirne l’indirizzo e le abitudini, imparare a usare la rivoltella, rubare la moto, calcolare i tempi dell’agguato, indovinare le vie di fuga, decidere l’attentato in un momento cruciale come la mattina delle elezioni.
Si può fare tutto da soli? Penso di no. Bisogna poter contare su un’area di consenso, per ristretta che sia. Dunque c’è anche questa. Non sarà semplice scoprirla. Le piante carnivore non muoiono mai. Perché crescono nel segreto di un fanatismo che nell’Italia del 2012 sta rialzando la testa.

Giampaolo Pansa