Pietro Citati, Corriere della Sera 07/05/2012, 7 maggio 2012
GIOVANNI SCOTO, IL FILOSOFO CHE ILLUMINO’ I SECOLI BUI
Con ogni probabilità, Giovanni — il più grande filosofo del Medioevo latino — nacque in Irlanda attorno all’815. La tradizione gli attribuisce due nomi: Giovanni Scoto e Giovanni Eriugena, cioè Giovanni l’Irlandese. Lo circondava una specie di leggenda: vir barbarus in finibus mundi positus, come scrisse Anastasio il Bibliotecario. Abbiamo pochissime notizie sulla sua vita. Tutto lascia credere che, carico di un’immensa erudizione, abbia insegnato nella giovinezza in Irlanda; e che il re di Francia Carlo il Calvo lo abbia invitato, attorno all’840, alla sua corte, affidandogli il compito di insegnare arti liberali alla scuola palatina di Parigi.
Divenuto re nell’843, Carlo il Calvo esercitò un grande fascino sui letterati del suo tempo. Giovane, abile parlatore, dotato sia di urbanitas sia di dulcedo, aveva costruito in numerosi anni una corte molto più brillante, viva e originale di quella di Carlo Magno. Moltiplicava le biblioteche e gli scriptores, che ricopiavano manoscritti italiani, inglesi e irlandesi; ispirava meravigliose miniature; leggeva tutti i testi latini che aveva a disposizione, e possedeva una conoscenza sia pure superficiale del greco. Il Libro era il cuore mobile e vibrante della sua vita. Giovanni Scoto e Carlo nutrivano, l’uno verso l’altro, sentimenti di ammirazione e di venerazione; e giocavano con il greco, il latino, le idee, le immagini, come se la cultura fosse una specie di spettacolo inesauribile.
A Parigi Giovanni Scoto aveva conosciuto dei professori provenienti da Costantinopoli, che gli avevano insegnato un greco quasi perfetto, in tutta la ricchezza delle sue sfumature. D’allora in poi si abbeverò a quella abbondantissima fonte: tradusse Prisciano di Lidia, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore e, sopratutto, l’immenso Corpus dello Pseudo Dionigi, che accreditò in Occidente. Scrisse il De praedestinatione, un commento a Dionigi, una mirabile Omelia sul prologo di Giovanni (a cura di Marta Cristiani, edito da Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla), un commento incompiuto al Vangelo di Giovanni. Prima dell’866 compose l’immenso Periphyseon, ovvero Sulle nature dell’universo: in questi giorni esce il primo volume di una bellissima edizione commentata, che comprenderà sei volumi della Fondazione Valla (primo volume: pagine LXXXVIII-303, 30). L’introduzione e il commento sono di Peter Dronke, uno dei più eccellenti e famosi medioevalisti e comparatisti di lingua inglese: la traduzione italiana di una elegante studiosa, Manuela Pereira, che negli anni scorsi ha curato per i Meridiani Mondadori un volume sull’Alchimia e Il libro delle opere divine di Ildegarda di Bingen.
Mentre Giovanni Scoto traduceva il Corpus dello Pseudo Dionigi, i Normanni scendevano in Francia: incendiarono e distrussero tre volte Parigi; attaccarono Nantes, sgozzarono il vescovo, arsero la cattedrale; bande di mori penetrarono a Arles e a Nîmes; altre flotte normanne assediavano Bordeaux; risalirono la Senna, la Loira, raggiunsero Tours, Orléans, Amiens, devastando case, chiese, palazzi reali, abbazie. Dopo qualche anno di pausa, le navi normanne riportarono dovunque desolazione e distruzione: tornò a diffondersi un’atmosfera da fine del mondo. Ma Giovanni Scoto non desisteva: lui doveva indagare le vere nature dell’universo, i principii, le entità angeliche, le teofanie; non i casuali disastri che la follia degli uomini produce sulla superficie del mondo.
Tornato alla luce dopo un lungo periodo di silenzio e di incomprensione, Sulle nature dell’universo è, per un lettore moderno, il libro filosofico più affascinante del Medioevo. La Summa di san Tommaso pretende di insegnarci una verità stabile e immobile; Sulle nature dell’universo commenta ogni idea, immagine, sensazione, intuizione che siano discese dai grandi testi della filosofia greca e latina; e non fa che inseguire ipotesi che si sciolgono e si dissolvono in altre ipotesi e congetture, culminando in una sovracongettura che appartiene, come diceva Borges, al genere della letteratura fantastica. Scoto corteggia qualsiasi suggestione culturale, ma non è vincolato a nessuna di esse. Non è platonico, né aristotelico, né stoico, né agostiniano, e tantomeno panteista. Mentre insegue i segreti dell’universo e di Dio, gioca, ironizza, dissemina false citazioni: il maestro del dialogo interminabile deride l’alunno, l’alunno deride il maestro; e non sappiamo mai chi dei due abbia veramente ragione. Analizza ogni possibile complessità logica; glossa le categorie; nessuno sembra più minuzioso e razionale di lui; e alla fine prorompe in grandi sintesi mistiche su Dio e la natura originaria dell’universo.
Il Nuovo Testamento contiene due testi fondamentali. «Quando Dio si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è», dice Giovanni. «Ora vediamo attraverso uno specchio in maniera enigmatica: ma allora vedremo faccia a faccia», dice Paolo. Quando leggeva queste frasi, il fedele cristiano era certo non solo di conoscere ma di vedere Dio, come egli è, faccia a faccia. Era la certezza, la grazia, la visione assoluta. Con un ardire straordinario, che ha qualcosa di inesorabilmente drammatico, Giovanni Scoto rifiutò o eluse le grandi frasi di Giovanni e di Paolo: abolì le fondamenta mistiche del Nuovo Testamento; e insistè sull’assoluto fallimento del linguaggio umano nel suo tentativo di comprendere il mondo divino.
Giovanni Scoto seguì una strada completamente opposta a quella di Giovanni e di Paolo. Nel Corpus dello Pseudo Dionigi aveva letto una frase, che trasformò nel fondamento del suo paradossale sistema filosofico: «L’essere di tutte le cose è la divinità al di sopra dell’essere». Così possiamo, anzi dobbiamo dire, che Dio è più che Dio; più che essenza; più che bontà; più che eternità; più che sapienza; più che amore; più che visione; più che movimento. Ma possiamo esprimere la stessa verità in un modo opposto, che ci porta più vicini a cogliere l’immenso segreto negativo di Dio. Ecco, dunque: Dio non è Dio; Dio non è Essenza; Dio non è bontà; Dio non è eternità; Dio non è sapienza; Dio non è amore; Dio non è visione; Dio non è movimento. Il risultato di questo doppio movimento, che afferma e cancella nel medesimo istante, è lo stesso. Per quanto noi ci sforziamo di capire e di vedere, ripetendo le parole di Giovanni e di Paolo, Dio è incomprensibile. Noi non possiamo conoscere Dio; e non possono conoscerlo nemmeno le entità angeliche, le quali sono dotate delle supreme qualità intellettive. Tra noi e Dio, tra gli angeli e Dio, regna una profondissima zona di cecità e di silenzio, la quale è la nostra unica strada d’accesso.
Poi, all’improvviso, Sulle nature dell’universo ruota su se stesso e si capovolge, e noi comprendiamo che, malgrado tutto, possiamo conoscere Dio, o almeno una parte di lui. Sebbene gli angeli non possano vedere in viso Dio, essi possono scorgere «le manifestazioni divine comprensibili alla natura intellettuale». Sono quelle che Giovanni Scoto chiama illuminazioni, apparizioni, rispecchiamenti, teofanie: fenomeni che noi, esseri umani, possiamo cogliere soltanto attraverso la mediazione angelica. In questo momento avviene ciò che noi non avremmo mai creduto possibile: la deificazione dell’uomo. Il Verbo divino, che continua a restare se stesso, discende per gradi verso il basso, verso la natura umana; e la natura umana, pur restando esclusivamente se stessa, ascende verso il Verbo, per opera e grazia dell’amore divino. Così l’anima è purificata, illuminata e perfetta, sebbene non si sciolga affatto nella cecità e nel silenzio dell’immenso nulla divino. Non esiste — Giovanni Scoto non potrebbe essere più chiaro — nemmeno una traccia di panteismo. Sulle nature dell’universo viene percorso e attraversato da un paragone bellissimo: «Come l’aria, illuminata dal sole, sembra non essere altro che luce, non perché perda la propria natura, ma perché la luce prende in essa il sopravvento, sicché essa stessa sembra essere parte della luce, così la natura umana unita a Dio è detta essere Dio sotto tutti gli aspetti, non perché la sua natura abbia cessato di esistere, ma perché è divenuta partecipe della Divinità, al punto che in essa sembra esserci solo Dio».
Gli ultimi libri di Sulle nature dell’universo raccontano grandiosamente il ritorno di tutte le cose nel grembo del Signore: l’apocatastasis. Allora, il corpo verrà tramutato in spirito. Lo spirito, o per essere più chiari, l’intera natura umana sarà restituita alle cause primordiali che esistono per sempre in Dio. La natura si trasformerà in Dio, come l’aria si trasforma in luce. L’essere umano si riunificherà, superando la divisione dei sessi. L’orbe terrestre sarà riunito al paradiso, e non vi sarà altro che paradiso. Il cielo e la terra torneranno uniti, e non vi sarà altro che cielo. Alla fine dell’apocatastasis il bene otterrà la sua vittoria definitiva sul male. Non vi sarà più nessun luogo per porvi un inferno, nessun fuoco per bruciarlo, nessun tempo per supplizi corporei. Anche il nemico supremo, il diavolo, verrà cancellato: continuerà a esistere, non perderà la sua natura demoniaca, ma non sarà più causa né di inimicizia né di morte. «Forse — conclude Scoto — l’ultima fiamma che riempirà e consumerà il mondo intero sarà l’apparizione visibile del Verbo di Dio in tutte le creature»: quella fiamma che ora lo riempie in modo invisibile.
Verso la fine della vita di Giovanni Scoto, le sue tracce si smarriscono. Sappiamo che prima il libro giovanile sulla Predestinazione poi Sulle nature dell’universo furono aspramente criticati dai dotti cattolici, specialmente per la violenta grecizzazione della cultura latina. Né il Dio-Nulla né la divinizzazione dell’uomo potevano piacere a chi si era nutrito di Agostino. Poi Giovanni Scoto scomparve. Di solito si sostiene che si nascose in un monastero nello stesso anno, l’877, in cui il suo imperatore, Carlo il Calvo, moriva ritornando da Roma in quella che sarebbe divenuta la Francia. Ma, nella recentissima edizione, Peter Dronke avanza un’ipotesi molto suggestiva. Il biografo di Alfredo il Grande, re d’Inghilterra, racconta che il re aveva invitato dalla Francia due studiosi, uno dei quali di nome Giovanni, «un uomo di intelletto acutissimo, coltissimo in tutti i campi della letteratura ed esperto in molte altre arti liberali». Proprio in quegli anni, Alfredo il Grande sviluppò in alcuni testi il grande motivo eriugeniano del ritorno di tutte le cose nel grembo di Dio. Non possediamo nessuna certezza assoluta. Ma non può essere escluso che l’ignoto Giovanni, l’uomo «di intelletto acutissimo», non sia stato altri che Giovanni Scoto, venuto in Inghilterra a diffondere drammaticamente le grandi visioni della sua vita.
Pietro Citati