Luca Ubaldeschi, La Stampa 8/5/2012, 8 maggio 2012
Quando spiego a un paziente che sì, c’è un tumore da affrontare, la comunicazione tra noi si interrompe, di colpo non mi ascolta più
Quando spiego a un paziente che sì, c’è un tumore da affrontare, la comunicazione tra noi si interrompe, di colpo non mi ascolta più. Pensa immediatamente ai figli, a ciò che lo aspetta, alla vita e alla morte. A quel punto è inutile che io continui a parlare, a discutere di cure. La cosa da fare è restare un po’ in silenzio e provare poi lentamente a ristabilire la comunicazione con lui». La storia di Umberto Veronesi è quella di un medico che ha dedicato la vita a cercare l’antidoto al cortocircuito mentale che si crea ascoltando quella parola, «cancro». Ben sapendo che la vera risposta è soltanto una: riuscire a dimostrare che avere un tumore non equivale a una condanna, che anche quella, per quanto difficile, è una malattia che molto spesso viene sconfitta. I progressi che Veronesi ha contribuito a far raggiungere in 60 anni di carriera sono importanti. Ma oggi siamo più vicini che mai al traguardo definitivo, «oggi sappiamo che arriverà un giorno in cui potremo dire che per un tumore non si muore più». Come raggiungere quel momento, Umberto Veronesi lo spiega in un libro che esce oggi, «Il primo giorno senza cancro» (Edizioni Piemme, 10 euro). Quanto è distante quel giorno, professore? «È giusto essere prudenti, ma mi sento di poter dire che è vicino. Sono convinto che scopriremo tutte le cause biologiche e ambientali dei tumori e controlleremo il cancro, come la medicina ha fatto per tutte le epidemie». Possiamo delineare un orizzonte? «Diciamo così: sulla base dei progressi degli ultimi 10-15 anni, ritengo che nei prossimi 10-15 raggiungeremo livelli di guaribilità molto elevati». Quali fattori sono stati decisivi per portarci sulla strada giusta? «Noi sappiamo che quella tumorale è una cellula “sprogrammata” che, a causa di un danno al suo Dna, cresce in modo smisurato e crea un’entità anarchica. Ebbene, nell’ultimo decennio la ricerca ha portato alla scoperta di una quindicina di farmaci “intelligenti”, capaci di agire sul Dna. È vero che c’è stata una battuta d’arresto: quando nel 2000 ci fu l’annuncio della decodifica del genoma umano, abbiamo pensato che il controllo del cancro fosse questione di poco tempo, perché credevamo che a ogni gene danneggiato corrispondesse una malattia. Bastava riparare quel gene. Invece abbiamo trovato che ogni tipo di tumore è regolato da molti geni diversi, rendendo la ricerca più lunga e complessa. Tuttavia negli ultimi anni e c’è stata una forte ripresa: mi aspetto che il processo di messa a punto di nuovi farmaci acceleri in maniera importante nel prossimo futuro». Di che cosa c’è quindi più bisogno? «Di un livello di analisi e sequenziamento del Dna ancora più approfondito. Vede, oggi sappiamo che la popolazione cellulare tumorale resta attiva perché contiene cellule staminali tumorali, cellule madri. Abbiamo cominciato a identificarle e questo produrrà risultati straordinariamente efficaci. Ma dobbiamocontinuare su questa strada per arrivare un giorno a colpire e distruggere soltanto le cellule staminali tumorali. Un’altra scoperta, però, ha giocato un ruolo cruciale». Quale? «Aver capito che quando il tumore si forma può rilasciare nel sangue frammenti di genoma, di Rna, che chiamiamo MiRna. La ricerca dei MiRna può diventare uno strumento di diagnosi superprecoce per individuare con sempre maggior anticipo il tumore. Per ora abbiamo trovato questi marcatori solo per il tumore del polmone, ma è ragionevole pensare che li scopriremo anche per le altre forme». Leihasempredatogranderilievo anche all’aspetto psicologico della cura. Nel libro ricorda che quando entrò all’Istituto dei tumori di Milano nel 1951, la cura del cancro era sinonimo di rassegnazione. Ora questo sentimento è scomparso? «Non del tutto. La parola cancro crea ancora un blocco a livello psicologico, nel lessico sociale e, come ho detto, anche nella comunicazione medico-paziente». Perché accade? «Perché è diventata metafora del male. Non a caso si dice che la mafia è il “cancro della Sicilia”. O peggio. Giorni fa si è rotto il parabrezza dell’auto e in officina ho sentito dire che era colpa del “cancro del vetro”. Il mio lavoro consiste anche in questo: combattere i fantasmi, la simbologia legata a questa malattia». Come ci riesce? «Con un atteggiamento di fiducia e speranza, che è dettato dai progressi della medicina, intendiamoci, ma che è giusto sottolineare con parole e gesti. Anche se la guarigione è molto nelle mani della gente. Con la prevenzione intendo, con l’attenzione allo stile di vita, a cominciare da una alimentazione sana. Più le persone partecipano a questo sforzo, più sarà vicino il primo giorno senza cancro».