Alessandra Mangiarotti, Corriere della Sera 8/5/2012, 8 maggio 2012
Per un giorno il ministro del Lavoro Elsa Fornero, nella sua Torino, è tornata a indossare i panni di professore: «I nostri giovani sanno troppo poco» ha detto dal palco di un convegno sull’apprendistato
Per un giorno il ministro del Lavoro Elsa Fornero, nella sua Torino, è tornata a indossare i panni di professore: «I nostri giovani sanno troppo poco» ha detto dal palco di un convegno sull’apprendistato. «Non conoscono le lingue, italiano compreso, e neanche i rudimenti della matematica, non sanno fare di conto». Poi ha messo in fila i numeri di un confronto europeo in cui l’Italia non brilla: i giovani tra i 18 e i 24 anni con titolo di scuola media inferiore e non inseriti in altri percorsi formativi sono il 18,8%, in Spagna l’11, in Francia il 12, la media Ue è del 14. E ancora: quelli tra i 30-34 anni con un titolo universitario sono il 19,8%, in Francia il 43,5, nel Regno Unito il 43, in Spagna il 40, la media comunitaria è del 33,6. Per poi tornare all’assunto iniziale: «Se andiamo a guardare la qualità della nostra istruzione si vede che i ragazzi sanno troppo poco. È un mondo abbastanza sconsolante». Un mondo in cui il professore-ministro mette le «lacune dei giovani», quelle del «sistema della formazione», quindi l’«atteggiamento snob dell’università» nei confronti delle imprese: «Troppo poco si è affrontato il confronto con le aziende per migliorare la corrispondenza tra domanda e offerta». Il suo punto di partenza sono stati i dati Istat che ci vedono fanalino di coda anche quanto a spesa pubblica per istruzione e formazione: il 4,8% del Pil rispetto a una media Ue del 5,6. Senza dimenticare le elaborazioni su scala europea dei risultati Ocse dove i nostri ragazzi si trovano al 17° e al 21° posto quanto a livelli di competenza in lettura e in matematica. Ma le parole del ministro Fornero dividono. Contro i presidi: «Valutazioni di carattere generalistico hanno scarso valore — afferma Giorgio Rembado, presidente dell’Anp —: hanno la pretesa di valutare un quid medium che neppure le statistiche riescono a valutare». Contro l’ex ministro della Gioventù Giorgia Meloni: «Se i giovani non conoscono nemmeno l’italiano — twitta — qualche colpa sarà pure dei professori». A favore i giovani dell’Udc: «Le parole del ministro potranno far pur male, ma hanno un fondo di ragione». Lo dicono le prove Invalsi. E lo dicono i dati Ocse Pisa. «Un termometro oggettivo» lo chiama il presidente dell’Associazione TreeLLLe Attilio Oliva «che pone i nostri ragazzi decisamente sotto la media Ocse, con i risultati peggiori al Sud: c’è poco da arrabbiarsi». Dall’oggettivo al soggettivo: la colpa di questi risultati? «Un ritardo storico di capitale umano rispetto all’Europa. Nel nostro Paese il processo di scolarizzazione di massa è più recente, le conoscenze e le competenze dei giovani risentono pesantemente di quelle dei genitori». Non solo: «A fronte della scolarizzazione impetuosa anni 70-80 c’è stata la necessità di formare insegnanti che rispondessero velocemente a questa domanda, il tutto con gravissime carenze nella formazione e nella selezione». Quanto poi alla bassa percentuale di giovani laureati Oliva aggiunge: «In Italia la laurea è per lo più laurea lunga, mentre all’estero abbondano lauree di due-tre anni». Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea, rifiuta l’«etichetta snob generalizzata» attribuita dal ministro all’università e punta invece il dito contro gli scarsi investimenti: «L’Italia è un Paese con pochi laureati anche perché poco ha destinato all’università e alla ricerca. Un Paese dove la classe dirigente (con una percentuale di laureati del 10%) probabilmente fa fatica a capire l’importanza di certi investimenti». Quindi mette in guardia dal rischio-pollo-di-Trilussa: «I dati Ocse sono una media, non dicono che i ragazzi del Nord eccellono. Appiattire tutto ai livelli minimi non fa bene: così si rischia di gettare sui giovani un’ombra che penalizza tutti». Anche perché, afferma l’eurodeputato ed ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer sottolineando quanto l’Italia dei laureati sia lontana dall’obiettivo Europa 2020, «i nostri ragazzi non sono meno intelligenti»: «La forte espansione scolastica non è stata accompagnata, come in altri pezzi d’Europa, dal passaggio da un sistema fondato sulla conoscenza a uno centrato sull’apprendimento. La colpa non è dei ragazzi ma di un sistema ormai vecchio». Alessandra Mangiarotti GIOVANNI PACCHIANO, SUL CDS DELLO STESSO GIORNO Ho accolto con fastidio la dichiarazione del ministro del Lavoro Elsa Fornero, che «i nostri giovani sanno troppo poco. Non conoscono le lingue, l’italiano compreso, e neanche i rudimenti della matematica». E prendo per buono il dato, riferito dal ministro stesso, che i giovani fra i 18 e i 24 anni con titolo di scuola media inferiore e non inseriti in altri percorsi formativi sarebbero quasi il 19% in Italia a fronte di una media europea del 14%. Ma non è questo il punto. Il problema è che da anni ci si ostina a credere che sia compito della nostra scuola essere eccellente per cambiare la società, quando succede l’esatto contrario: la scuola non è eccellente perché la nostra società non è eccellente (per usare un eufemismo). I nostri ragazzi non sanno l’italiano? Basta ascoltare alla televisione l’italiano dei politici (lessico, sintassi, inflessioni dialettali) per renderci conto che si tratta di un duro match. Sanno troppo poco? Non solo loro. Da anni stiamo assistendo a un imbarbarimento culturale del Paese, che non parte certo dalla scuola, dove le aule sono sempre più affollate e docenti malissimo pagati e pochissimo considerati dall’opinione pubblica non hanno altri incentivi se non quello della loro coscienza per svolgere bene il proprio lavoro. Ma esiste, a dar l’esempio, una buona coscienza collettiva e condivisa del Paese? Del resto, non ci sono state, in anni recenti, riforme decisive che rinnovassero la scuola: non quella Berlinguer, non quella Gelmini: Ché, anzi, il feticcio, sostenuto dalle nuove pedagogie, delle «competenze» e delle «abilità» si è radicalmente sostituito alla necessità del «conoscere», cioè dell’epistemofilia. Che è la base di ogni insegnamento. Oggi, ad esempio, si baratta volentieri la dimensione profonda della Storia e della Memoria, senza la quale ogni civiltà rischia di andare alla deriva, col «saper fare». Certo, ci rallegra molto apprendere da un recente studio della Fondazione Agnelli che, eccezione alla regola, gli istituti tecnici negli ultimi anni hanno fatto un ottimo lavoro, non solo come preparazione da sfruttare per il mercato ma anche per l’ingresso nelle Facoltà. A patto, tuttavia, che la società dell’azione non schiacci quella della conoscenza. Giovanni Pacchiano