Marco Cremonesi, Corriere della Sera 05/05/2012, 5 maggio 2012
MA FAI BERE TUO FIGLIO?
La sigla finisce e il Maestro è lì, muto. Faccia scura, braccia conserte, per un interminabile minuto non dice una parola. Poi scatta verso la telecamera: «Sono furibondo... Ho sentito qualcuno dire che il vino è come la droga. E allora, ascoltatemi bene: da quando per la prima volta la prudente mano di mio padre mi versò, avevo sei anni, il primo calice di vino, io di calici ne ho bevuti molti. Anzi: moltissimi. Sono un drogato? Ditemi! Luigi Veronelli è un drogato?». Chi ha avuto la fortuna di sentir parlare «il Gino», di certo non lo dimentica: il sentirlo raccontare di un vino mentre ne accarezzava la bottiglia con lo sguardo era esperienza incantatrice. Per lui — oggi è banale dirlo — un vino era sempre una storia: di paesaggi, di sfide contro la natura esigente, di uomini. Della ricerca instancabile di certi vignaioli, che pure sanno bene che il nettare perfetto non arriverà mai.
Quando racconto che porto mio figlio Nicola, 12 anni, nelle mie scorribande in Borgogna o nel bordolese, in Langa o in Maremma, nel Collio o ai castelli di Jesi oppure nella Valpolicella, incontro sempre uno sguardo diffidente. Diciamolo: scandalizzato. Ma vai nelle cantine? Certo, in quei posti ci vado proprio per le cantine. Ma un ragazzino non si annoia? Direi proprio di no. Almeno fino a quando non sarà distratto da passioni più viscerali. Alla fine, si arriva sempre alla domanda vera: ma fai bere anche lui? Beh, se sei a Chassagne o a Puligny, e sul tavolo c’è una bottiglia di Montrachet, è difficile negare un assaggio: è il re degli chardonnay. Soprattutto dopo che dalle finestra dell’albergo si sono spiati i vignaioli ripetere all’alba gesti millenari, o al termine di un breve giro su quei trattorini alti in modo da stare a cavallo dei filari. Certo, la dose non è il calice di papà Veronelli con il figlio Luigi: basta mezzo dito o anche meno. È il momento di far notare quanto il sapore duri a lungo e quante volte cambi in bocca. Oppure — non è strano? — che il 1997 sia diverso dal 1998. A me sembra, semplicemente, educazione.
Certo, tutto deve essere legato in un racconto. Se siamo a Corton, si può parlare della leggenda di Carlo Magno, a cui si serviva vino bianco (sarà in seguito il grasso Corton-Charlemagne) perché il rosso non gli macchiasse la barba ormai bianca. A Montalcino, si ricordino i nobili senesi asserragliati tra le mura, immaginiamo in compagnia dei loro Brunelli, prima della battaglia di Montaperti. Ribolle o Durelli andranno bene per rievocare i moli della Serenissima, porta d’Oriente, traboccanti di colori. Mentre le vigne scoscese del Reno preparano bene al colpo d’occhio su Lorelei e alla sua leggenda. Dunque, Luoghi di fascino, racconti, buona cucina. Ma anche predicozzi sul filo del terrorismo riguardo ai danni del bere eccessivo e disprezzo ostentato per chi troppo ha bevuto (utile un venerdì sera a Londra) sono, io spero, i compagni che insegneranno a Nicola a godere di un dono della vita e a non essere il milionesimo seguace dello sballo da sabato sera.
Recentemente sulla rivista Slate è stato pubblicato un articolo sull’opportunità o meno di fare assaggiare il vino ai bambini. La scienza, in realtà, aiuta poco. Ci sono studi approfonditi che arrivano a conclusioni opposte. «Storia naturale dell’alcolismo» di George Vaillant paragona la formazione di bevitori e non bevitori nell’area di Boston. E scopre che quanti sono cresciuti in famiglie in cui non era permesso toccare alcol, sono sette volte più a rischio di diventare alcolisti che non coloro le cui famiglie bevevano durante i pasti. Ma, appunto, ci sono studiosi di opinione assai diversa: c’è anche chi sostiene che l’alcol sia semplicemente un veleno. Punto. Per gli adulti e tanto più per i ragazzini. Slate cita però anche il caso francese, in cui l’aumento degli abusi alcolici viaggia di pari passo con il declinare della storica abitudine gallica di bere in famiglia.
Io, per me, continuerò a seguire le lontane lezioni «del Gino» Veronelli. Un omaggio a lui, maestro indimenticabile, e — si spera — un regalo a mio figlio.
Marco Cremonesi