Gilberto Corbellini, Domenica-Il Sole 24 Ore 6/5/2012, 6 maggio 2012
RIAVVOLGENDO IL FILM DELLA VITA
La scomparsa prematura, il 20 maggio 2002, di Stephen Jay Gould, biologo evoluzionista e influente intellettuale, ha lasciato un vuoto che va al di là degli affetti, della simpatia e della stima – ovviamente anche delle ostilità – che egli suscitava. È venuta a mancare un’intelligenza criticamente iperbolica, distribuita e iconoclasta. E si è impoverito il dibattito teorico e il confronto culturale sulla struttura, le dinamiche e le implicazioni del sistema di conoscenze evoluzionistiche che dà senso alla ricerca biologica. Non si poteva – e ancora non si può – rimanere neutrali leggendo Gould. Ma questo era precisamente quello che lui cercava. Perché, come ha dimostrato il suo amico Michael Shermer, storico della scienza, divulgatore ed editor di Skeptic, in un imprescindibile studio sull’articolazione del pensiero di Gould (This view of Life: Stephen Jay Gould as Historian of Science and Scientific Historian, Popular Scientist and Scientific Popularizer, Social Studies of Science 2002, 34/2, pagg. 490-526) la sua ricerca incarnava cognitivamente ed emotivamente un motto enunciato da Charles Darwin: «Qualunque osservazione deve essere a favore o contro qualche idea, per servire a qualcosa».
Un approccio epistemologicamente ineccepibile, benché qualche volta praticato usando un po’ frettolosamente le osservazioni o proteggendo alcune sue idee più di altre, e soprattutto teso a integrare le dimensioni scientifiche, storiche, filosofiche e culturali della ricerca, lo ha portato ad aprire, dagli inizi degli anni Settanta, una serie di conflitti teorici all’interno della biologia evoluzionistica. Gould ha scompaginato i giochi elaborando le sue ipotesi o idee, da confrontare con i dati/fatti, nel contesto di contrapposizioni tematiche che sono costitutive del pensiero biologico: adattazionismo vs. non adattazionismo; puntuazionismo vs. gradualismo; contingenza vs necessità; tempo ciclico vs tempo lineare, eccetera. E l’ha fatto usando un registro di comunicazione anche divulgativa, senza però appiattire i problemi in una logica di banalizzante semplificazione. Il suo approccio ha costretto i biologi, che nei decenni successivi al lavoro di sintesi neodarwiniana lavoravano all’interno di linee tematiche tracciate da schematizzazioni del darwinismo – in particolare l’enfasi sulla selezione naturale, l’adattamento, la gradualità e la necessità come chiavi per spiegare qualunque sbocco evolutivo – a fare i conti con altre possibilità e dinamiche dei processi evolutivi. Vale a dire con dimensioni non adattative (subottimalità e possibile non funzionalità di un tratto), discontinuità e succedersi di fasi lente o accelerate di cambiamento, contingenza (storicità e non direzionalità dei cambiamenti), assenza di qualunque progresso e rappresentazione della storia della vita più come un cespuglio che come un albero o una scala, eccetera.
Le sue sfide non sempre sono state accolte con entusiasmo. Ed egli stesso non ha sempre aiutato il confronto. Dato che su alcuni temi, come l’uso di spiegazioni evoluzionistiche e metodi empirici per studiare i tratti comportamentali umani, si è espresso contrapponendo o rafforzando argomentazioni in prima istanza ideologicamente motivate, più che di carattere teorico-metodologico ed empiricamente validate.
Shermer ha effettuato un’analisi qualitativa e quantitativa della produzione di Gould, da cui risulta la formidabile poliedricità (non voleva però essere definito "eclettico", ma "artigiano"). Che forse facilita i fraintendimenti delle sue idee, se si guarda solo a una delle sue "facce"; e allo stesso tempo produce anche qualche asimmetria nel modo di usare le osservazioni in rapporto alle idee.
Dall’analisi delle 902 pubblicazioni realizzate da Gould in 37 anni si evince che oltre metà (479) sono di carattere scientifico, pubblicate cioè in riviste con peer review (per cui non si può dire che Gould sia stato soprattutto un divulgatore). E, cosa un po’ sorprendente, ben 101 (21 per cento) di queste riguardano la storia della scienza (136 articoli la teoria dell’evoluzione – di cui però solo 15 la teoria degli equilibri punteggiati – e 115 problemi di paleontologia, senza dimenticare decine di articoli tecnici sul baseball). Tra il 1977 e il 1999 Gould è stato uno dei nomi più citati, secondo il principale indice bibliografico di storia della scienza (Isis Bibliography): da cui l’uscita di uno storico della scienza, il quale ha detto di non saper stabilire se Gould sia stato importante per la biologia, ma che di certo è stato «il più influente storico della scienza (dopo Thomas Khun)». La preponderanza della storia della scienza, usata da Gould come momento di sintesi tra dati storici, conoscenze scientifiche, riflessione filosofica e contestualizzazione socioculturale, emerge anche dall’analisi dei trecento saggi pubblicati da Gould sulla rivista Natural History dal 1975 al 2001 in una rubrica mensile intitolata «This view of Life», e raccolti in dieci dei suoi ventidue libri. Ebbene su 300 saggi ben 212 contengono un argomento storico in posizione rilevante.
L’importanza che riveste in Gould la storia per capire la scienza e la scienza per capire la storia non è stata compresa da chi gli ha, per esempio, attributo l’idea che l’evoluzione sia influenzata solo da contingenze (che qualcuno ha forzatamente inteso come casualità,) e non anche dalla necessità imposta (e scientificamente definita) dalla selezione naturale. Il senso della frase «se potessimo riavvolgere il film della vita e riproiettarlo, difficilmente alla fine della rappresentazione vedremmo comparire di nuovo Homo sapiens sapiens o una specie auto-cosciente che gli somiglia» è stato oggetto di accese critiche. Qualcuno ha scritto che Gould, presentando in questo modo la teoria dell’evoluzione, consentiva ai creazionisti di affermare che per i darwiniani l’evoluzione è frutto del caso. Giustamente il biochimico e premio Nobel Christian De Duve ha detto che la selezione naturale agì fin dalla formazione delle prime macromolecole della vita, e ha progressivamente canalizzato i vincoli fisico-chimici, molecolari, metabolici, eccetera, nel solco dei quali e nello spazio delle cui possibilità soltanto accadono le singolarità. Ma Gould aveva probabilmente chiaro questo concetto, avendo scritto di non usare il termine "contingenza" come sinonimo di "casualità" (randomness) ma per segnalare il carattere imprevedibile, date comunque all’opera le leggi di natura, delle «sequenze di stati antecedenti» che hanno portato a un risultato osservato. Del resto, l’intento di Gould era anche quello di insistere nel picconamento, iniziato da Darwin, dell’antropocentrismo: cioè che noi uomini e i tratti di cui andiamo orgogliosi non sono inscritti nemmeno in una logica naturalistica (men che meno, quindi, in un disegno intelligente!). Questo messaggio di modestia rimane valido. Ma ci si può anche chiedere, cosa che Gould non avrebbe però ammesso, quali predisposizioni comportamentali, acquisite evolutivamente e cablate dallo sviluppo del cervello, abbiano dato origine a quelle manifestazioni culturali, tra cui la religione ma anche i sistemi di conoscenze senza controlli empirici, che si alimentano proprio di intuizioni antropocentriche e finalistiche.
Considerati articolazione, spessore e rigore, il pensiero di Gould poco davvero si presta a strumentalizzazioni. Sia in chiave sminuente sia in un’ottica beatificante. Purtroppo, come egli stesso ha denunciato a metà degli anni Novanta, di fronte ad alcuni attacchi personali e a critiche pretestuose, lo stile del confronto intellettuale, persino tra coloro che dovrebbero aver imparato a governare meglio le emozioni, cioè gli scienziati, si è andato parrocchializzando. Va anche detto, però, che egli stesso ha contribuito a questa condizione, diffondendo l’idea di una scienza contestualizzata e pluralista (ma Gould non era relativista!). Che lui praticava con rigore e onestà intellettuale, e senza mettere in secondo piano il contributo del metodo e delle spiegazioni riduzionistiche. Mentre altri lo invocano per avvallare improbabili commistioni metodologiche e derive dualistiche. Se non, e qui del tutto impropriamente, per mettere in discussione il valore razionale e l’utilità della conoscenza scientifica.