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 2012  maggio 06 Domenica calendario

L’ARMA A DOPPIO TAGLIO DELL’AUSTERITÀ A TUTTI I COSTI

Austerità: la parola in sè non è brutta, ma di questi tempi ha un sapore amaro. Cosa vuol dire oggi austerità? Vuol dire, in poche parole, stringere la cinghia. E perché bisogna stringere la cinghia? Per due ragioni. Primo, perché l’economia è in crisi. Secondo, perché il Governo stringe la cinghia anche lui: cerca di ridurre il deficit pubblico spendendo di meno e aumentando le tasse. E, dato che lo Stato siamo noi, quando quella cinghia si stringe, è la nostra cinghia che si stringe. Se lo Stato spende di meno, meno soldi vengono immessi nel gran corpaccio dell’economia; e se lo Stato aumenta le tasse, nelle nostre tasche rimangono meno soldi.
Un momento, direte voi. L’economia è in crisi, e va bene; anzi, va male. Ma se l’economia è in crisi il Governo non dovrebbe aiutare e sostenere? Perché invece ci mette del suo e rincara la dose? É come se in un Paese venissero grandi pioggie e grandi inondazioni, e il Governo, invece di rinforzare argini e aprire canali di scolo, apre le chiuse di qualche invaso a monte e butta giù altra acqua.
Buona domanda. E la risposta non è facile. Per chi ama le scelte nette - bianco o nero - e ama stilare le pagelle dei buoni e dei cattivi, questo è un caso difficile. Ci sono argomenti sia a favore dell’austerità che contro. Ascoltiamo un dialogo a tre: due feroci assertori dell’Austerità-Sì , dell’Austerità-No e un terzo povero diavolo che cerca di capire: chiamiamolo Austerità-Così così.
Sì. Nessuno si diverte a far stringere la cinghia ai cittadini, ma il Governo è preso fra l’incudine e il martello. L’Italia ha un grande debito pubblico: ogni mese vengono a scadenza dei titoli e i risparmiatori devono decidere se rinnovarli. E non li rinnovano se vedono che l’Italia continua ad avere i conti in disordine, il bilancio in deficit. Per questo bisogna che l’Italia si affretti ad avere un bilancio in pareggio.
Così così. Ma cosa succede se questi risparmiatori non rinnovano i titoli. É tanto grave?
Sì. È molto grave. Se i risparmiatori diffidano dei conti pubblici del Paese, chiederanno più interessi, lo Stato dovrà pagare di più e aggraverà ancora il deficit. Per uscirne - torniamo sempre lì - bisognerà ridurre le spese e aumentare le tasse. E se i risparmiatori proprio non vogliono rinnovare e vogliono indietro i loro soldi, succede la catastrofe. Lo Stato i soldi non li ha; deve dichiarare fallimento, la fiducia crolla, la gente ha paura, non spende, il Pil affonda e la disoccupazione esplode. Meglio l’austerità che questa catastrofe.
Così così. Ma non si può fare appello al patriottismo dei risparmiatori perché rinnovino i titoli?
Sì. Metà del debito pubblico italiano è in mano agli stranieri, e questi non sono molto patriottici.
No. La catastrofe vera è quella che si va dispiegando sotto il nostro naso. Se si riducono le spese e si aumentano le tasse quando l’economia già soffre per conto suo, soffrirà ancora di più. Se calano redditi e occupazione, lo Stato incasserà meno tasse, non più tasse. Sta aumentando la disoccupazione e lo Stato spenderà di più per sussidi e Cassa integrazione. I sacrifici fatti saranno invano e ricomincerà questa insana fatica di Sisifo.
Sì. É da molti anni - da ben prima di questa crisi - che l’economia italiana non cresce (vedi il Sole Junior del 27 novembre 2011). Ed è vero che queste dolorose misure per riportare il bilancio in pareggio sarebbero vane se non fossero accompagnate da altre misure per tagliare i nodi che ostacolano la crescita (troppi adempimenti, troppa burocrazia, troppo poca concorrenza, troppi precari nella parte bassa del mercato del lavoro e troppa protezione nella parte alta). Se si fanno misure di restrizione assieme a quelle di stimolo forse riusciamo a salvare capra e cavoli.
No. Forse, hai detto. Stai facendo esperimenti in corpore vivo, sulla pelle del Paese.
Sì. Tu hai una ricetta migliore? Spendere e spandere? Allargare il deficit invece di ridurlo? I mercati ci massacrerebbero.
No. Al diavolo i mercati! E al diavolo la Bce e l’euro! Ci siamo cacciati in questo pasticcio perché siamo entrati nell’euro. Meglio uscire e tornare al buon tempo antico. Fare una bella svalutazione, avere una lira che favorisce le nostre esportazioni e fare così un bello sgambetto ai tedeschi.
Sì. Adesso sei tu che ti metti a fare esperimenti in corpore vivo, giocando con la pelle del Paese. Ci sono altri modi di stimolare l’export. Quando i produttori italiani sono con le spalle al muro si inventano qualcosa: se non possono svalutare migliorano la qualità, aumentano l’efficienza, riducono i costi. Le nostre esportazioni stanno andando bene.
Così così. Ma cosa ci sarebbe di tanto brutto nel tornare alla lira? Come siamo entrati nell’euro, ne possiamo uscire.
Sì. Meno venti.
Così così. Cosa vuol dire "meno venti"?
Sì. Vuol dire che il Pil - l’attività economica - andrebbe giù del 20%: una crisi epocale. Sono state fatte le simulazioni, e il rimedio sarebbe peggiore del male; come dicono in Veneto, peggio " il tacon del buso".
Così così. Ma non c’è una via di mezzo? Invece di arrivare il più presto possibile a questo maledetto pareggio del bilancio non ci potremmo mettere un po’ più di tempo? Dare all’economia il tempo di abituarsi, a prendere della crisi le sollecitazioni a far meglio e non i colpi duri del "tutto e subito"?
No. No, per i tedeschi e per tutti i fanatici nostrani del "tutto e subito", "pareggio o morte" non ci sono vie di mezzo. Siamo condannati all’austerità, ed è una condanna senza scampo che devasterà il Paese.
Sì. Il "prender più tempo" è un’opzione, ma è l’opzione del medico pietoso. In ogni caso ci siamo impegnati in sede europea ad afferrare il pareggio (o quasi) l’anno prossimo. Noi siamo esposti al ricatto dei mercati. Lo so che stiamo facendo una scommessa arrischiata. Rischiamo brutto. Ma rischiamo anche di uscirne bene.