STEFANO LEPRI, La Stampa 7/5/2012, 7 maggio 2012
MA NON È LA SCONFITTA DELL’UNIONE
La Grecia ha forse un Parlamento senza maggioranza, polarizzato verso gli estremi. Ma, altrove, i risultati del voto di ieri sono tutt’altro che distruttivi. Gli altri Paesi dell’euro potranno benissimo reggere senza danni a una possibile catastrofe ellenica, ma solo se sapranno compiere quei passi avanti che si sanno necessari.
Alcuni segni migliori già sono apparsi nei giorni scorsi; occorre subito confermarli per placare i mercati (che in parte già avevano messo in conto un risultato come quello di ieri ad Atene). Il voto della Francia rientra nella normale alternanza democratica, con un margine di vittoria modesto; e, guardando meglio ai risultati del primo turno di due settimane fa, non appare alcuno spostamento verso le estreme rispetto al 2007 e al 2002.
Nella regione tedesca dello Schleswig-Holstein, i partiti che sorreggono il governo Merkel sono addirittura andati, se non bene, meno peggio del previsto. Nei Paesi grandi - tra cui la Gran Bretagna, perché occorre ripetere che non si tratta solo di guai dell’euro - gli elettori rifiutano le politiche di sola austerità, talvolta rafforzano movimenti qualunquisti come i «Pirati» in Germania, però non si dirigono verso scelte estreme.
Il voto della Grecia esprime soprattutto il rifiuto di una classe politica, senza esprimerne una nuova. Per la maggior parte dei greci l’euro conserva un bilancio positivo: la recessione non ha ancora cancellato del tutto gli effetti del boom conosciuto tra il 2002 e il 2007. Dunque l’80% ha scelto partiti che, per quanto massimalisti, non vorrebbero uscire dall’unione monetaria. Ma solo il 35% ha appoggiato i partiti pronti a fare ciò che serve per restarci.
In Italia se ne può trarre qualche lezione. Apprendista stregone è stato il leader conservatore Antonis Samaràs, che ha accelerato la fine di un governo tecnico in carica solo per sei mesi: ottiene ora i desiderati 50 seggi del premio di maggioranza relativa ma potrebbero non essere sufficienti. Occorrevano invece tempo e consenso per riformare uno Stato inefficiente e clientelare oltre che troppo vasto, senza di che nessuna politica economica risulterà praticabile.
La Grecia non è in grado di uscire dall’euro adesso, né di dichiarare il default del debito pubblico. Il suo bilancio dello Stato resta in deficit anche al netto degli interessi sul debito; dunque in caso di insolvenza finirebbero presto i soldi per pagare gli stipendi degli statali. Per qualche mese, il sostegno dell’Europa e del Fondo monetario assicura che tutto continui a funzionare; poi il versamento delle tranches successive dei prestiti diverrà una decisione delicatissima.
Dando per scontato un lungo periodo di incertezza ad Atene, è essenziale che i grandi Paesi dell’euro si mostrino subito capaci di provvedere. Nessuna delle richieste vere di François Hollande è inaccettabile per la Germania. Il rischio casomai è un altro: che nei compromessi tra governi non emerga quella visione del futuro a cui esorta il presidente della Bce Mario Draghi.
Anche il responso dell’elettorato tedesco può spostare qualcosa. Se il rigoroso ministro dell’Economia Wolfgang Schaeuble, dopo aver aumentato gli stipendi agli statali, dichiara che «i salari possono crescere più rapidamente che in altri Paesi», la Germania potrà fare meglio la sua parte in Europa. Nei Paesi in deficit è inevitabile stringere la cinghia; i tedeschi invece possono permettersi di vivere meglio, e così facendo aiuteranno gli altri. Si ridurrà più in fretta il divario di competitività.
Mostrarsi determinati ad andare avanti verso una più stretta unione. Finora al François Hollande candidato sono mancate parole da europeista; ma la sua spinta potrà essere utile a trasformare in fatti il «serve più Europa» di Angela Merkel.