ALBERTO MATTIOLI, La Stampa 7/5/2012, 7 maggio 2012
Sarkò “l’americano” ha trasformato l’Eliseo in un reality - In fin dei conti, è sempre stato un ragazzo degli Anni Ottanta
Sarkò “l’americano” ha trasformato l’Eliseo in un reality - In fin dei conti, è sempre stato un ragazzo degli Anni Ottanta. Gli anni di Reagan e della Thatcher, del meno Stato e più mercato, dell’impresa vincente e del comunismo perdente, e basta con le utopie sessantottine e le assurdità dei Settanta. Nicolas Paul Stéphane Sarközy de Nagy-Bocsa, figlio di un aristocratico ungherese, di professione avvocato d’affari, diventò un politico importante in quegli anni: sindaco di Neuillysur-Seine nell’83, a 28 anni, deputato nell’88, ministro nel ‘93. Con un’idea in testa: che fosse matura per la rivoluzione liberale e liberista anche la Francia conservatrice e colbertista con il suo Stato onnipotente, onnipresente e onnisciente. Del resto, l’aveva detto nel suo primo discorso da grande promessa della destra: «Essere un giovane gollista, è essere un rivoluzionario». La contraddizione del Sarkozy presidente è tutta qui. Per la minoranza che pensa che il modello francese sia non solo vecchio, ma pure invecchiato male e in ogni caso non più sostenibile, non ha riformato abbastanza; per la maggioranza, che tutto sommato ci sta bene, ha riformato troppo. Dopo dodici placidi anni di Jacques Chirac, nel 2007 Sarkozy vinse promettendo «la rupture». Ma per alcuni non ha rotto abbastanza, per altri fin troppo, e non solo le abitudini consolidate di un Paese che fa le rivoluzioni ma è conservatore nell’intimo. «Lavorare di più per guada- tere in piazza la persona e non solo la gnare di più», fu allora lo slogan vin- funzione. La «rupture», l’altra, quella cente. Ma, con la crisi, oggi in Francia con la moglie Cécilia, e poi il nuovo masi lavora altrettanto per guadagnare, trimonio con Carla Bruni sono diventati in proporzione, di meno. una specie di reality show, un «Grande Sarkò «l’americano» non ha solo fratello» dove la casa spiata dal buco reinserito la Francia nel comando del- della serratura era l’Eliseo. E poi i tacla Nato, dal quale l’aveva tolta De Gaul- chi, i Ray-Ban, i Rolex, la festa al Fouquele in una delle sue tipiche botte di gran- t’s la sera della vittoria e la crociera sullo deur. E’ stato americano anche nel mo- yatch di Bolloré dopo, la presidenza do di proporsi, di usare i media, di met- «bling-bling», le passeggiate con Carlà a Disneyland o a Petra a favore di fotografi: tutto questo è molto americano. E poco francese, in una monarchia repubblicana dove il Président è anche un protettore, un’icona, un simbolo, l’incarnazione dello Stato e del Potere. Giscard o Mitterrand mai avrebbero ringhiato «Casse-toi, pov’re con!» (un vaffa coi fiocchi) a un contestatore al Salone dell’agricoltura. Chirac, al Salone, assaggiava ogni formaggio e accarezzava ogni vacca, con calma e metodo, per ore e ore. Sarkò ci passava come un razzo, sempre di fretta, sempre impegnato a fare tre cose contemporaneamente, sempre «iperpresidente». Risultato: i francesi hanno amato Chirac; Sarkozy, a seconda delle opinioni, o lo ammirano o lo temono. In ogni caso, non lo amano. E non lo vogliono più. Poi, certo, Sarkò ha capito e ha cercato di «ripresidenzializzarsi». Ha smesso di fare ironie sulla cultura, gravissime in un Paese che la prende sul serio (almeno la sua), non parla più di Louis de Funès ma di Dreyer e ha perfino ammesso che sì, quella maledetta cena con i miliardari al Fouquet’s fu un errore. Ha fatto una riforma delle pensioni, una del lavoro, ha dato l’autonomia alle università e un giro di vite all’ordine pubblico, durissimo contro la «racaille» delle banlieue o con i rom. Il meglio lo dà nelle emergenze, fin da quando andò di persona a trattare con l’«Human bomb» che aveva preso in ostaggio i bambini di una scuola di Neuilly. Quando, dopo il vertice all’Eliseo che aveva deciso l’intervento contro Gheddafi, disse ai giornalisti che i Rafale erano già in volo era serio ma, si capiva, contento: l’azione, finalmente. Anche la crisi, anzi le crisi, l’hanno colpito ma non travolto. Ha reagito e gestito, tutto sommato bene, un’economia che andava male. Non è uscito dal serraglio, non ha studiato all’Ena, è rimasto sempre un outsider, un corpo estraneo non solo per la politica, ma anche per la mentalità francese. Gli «affaires», certo, ci sono stati e troppi sospetti e opacità circondano le vicende del candidato prima e del Presidente poi. Alcune gaffe, idem, come il tentativo di nominare il figlio senza arte né parte presidente di un ente pubblico. Ma non è stato bocciato per questo. E’ stato bocciato perché come Presidente è stato, insieme, troppo e troppo poco. E poi perché gli Anni Ottanta sono finiti da un pezzo.