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 2012  maggio 06 Domenica calendario

PRADA: IO, GLI ABITI, L’ARTE (E LA FATICA DELLE DONNE)

Milano, martedì pomeriggio. Miuccia Prada entra nella stanza piena di sole e scivola verso un grande tavolo bianco. Si siede con un libro davanti. Indossa un maglione grigio a V sopra una maglietta colorata, e porta un nastro nero tra i capelli.
«Non mi faccia l’esame».
Non è un esame, è una conversazione.
«A domanda rispondo».
Perché da questo ufficio al terzo piano parte uno scivolo?
«Ne avevo visto uno in Germania, e quando abbiamo costruito questi uffici mi ero intrippata: per lo scivolo e per il lavoro dell’artista (Carsten Höller). Lui forza la percezione. L’idea è che, mentre uno scende, per un momento è felice».
Più originale dell’ascensore. Mai scesa così?
«All’inizio, tantissimo. Ma poi, alla fine, ci si stufa».
L’ho intervistata per il Corriere nel 2003. A Milano, in una pasticceria di piazzale Baracca, ricorda? Non le chiedo com’è cambiato il mondo o l’Italia, da allora. Mi dica come è cambiata Miuccia Prada.
«Diciamo che non lo so e non mi interessa».
Non le interessa?
«Non penso a come sono cambiata, ma a quello che devo fare».
Il Metropolitan Museum di New York le dedica una mostra insieme a Elsa Schiaparelli, celebre stilista italiana di un’altra epoca «The Met’s Spring 2012 Costume Institute Exhibition, Schiaparelli and Prada: Impossible Conversations». Una laurea ad honorem nella professione, no?
«Diciamo che un riconoscimento del genere piace e non piace, quando si ha una certa età. Certo è un onore, però uno pensa: ma come, la mia carriera è finita?».
Quando le hanno proposto l’abbinamento è rimasta sorpresa?
«No, era già saltato fuori. Ma è un rapporto, quello tra arte e moda, che a me sembra superficiale e utilitaristico, e ho sempre rifiutato».
Lei collabora con tanti artisti, però.
«Io collaboro con gli artisti, ma nel loro settore, mai nel mio. Germano Celant mi diceva che l’unico rapporto veramente importante tra l’arte e la moda è stato quello di Salvador Dalí con Elsa Schiaparelli. Quindi diciamo che la Schiaparelli andava bene».
Chi potrebbe essere il Dalí di Miuccia Prada?
«C’è, ma non lo dico, altrimenti gli altri sono gelosi. Mi rovinano l’esistenza».
Sembra si diverta, a stare con gli artisti.
«Alla Fondazione sono piena di artisti con cui collaboro. Ma, ripeto, nel loro campo. Un artista importantissimo di cui non dirò il nome mi ha chiesto di fare borse con lui, e io gli ho risposto di no. Non l’ho raccontato a nessuno, altrimenti dicevano che ero pazza. Ma io ho sempre rifiutato l’idea dell’artista che lavora per te».
Perché?
«Uno, perché mi sembra un po’ cheap, banale, anche se forse non è l’aggettivo giusto. Due, io voglio essere brava di mio».
Perché banale?
«Perché adesso tutti collaborano con tutti e io sono contro questi mescoloni. Tra arte, architettura, moda, è meglio che ognuno sia bravo di suo».
Ho chiesto ad alcune conoscenti — solo donne — di suggerirmi una domanda per Miuccia Prada. La prima: chiedile se c’è un capo che rappresenta il mondo pre 2008 e un altro il post 2008, il crash finanziario e il momento che stiamo vivendo.
«Io sono la persona meno adatta per dare queste risposte brevi».
Eppure i suoi abiti appaiono essenziali.
«Quando faccio le sfilate sintetizzo eccome, ma prima c’è un’enorme mole di lavoro. Comunque, mettiamola così: la moda oggi non riflette un modo in crisi, se c’è una cosa che evidenzia è la differenza tra ricchi e poveri. Il cliente che in gergo noi chiamiamo aspirational non c’è più. Adesso c’è un mercato molto economico rappresentato da H&M e Zara e un livello molto costoso: sta scomparendo la via di mezzo».
I ricchi del mondo spendono?
«Spendono sempre di più, e la cosa fa abbastanza impressione. E la preoccupazione che si sente qui non c’è in Cina, non c’è in India, non c’è a Hong Kong. Non c’è nemmeno in Brasile o in Russia. I ricchi spendono, i ricchi sono sempre più ricchi».
E l’Europa?
«L’Europa è un posto a se stante, molto più difficile da leggere, dove c’è ancora la fascia dei cosiddetti chic o snob, che si vestono ma non vogliono far vedere che spendono».
Quindi lusso e moda stanno diventando sinonimi?
«No, e le spiego perché. Quando non hai niente, il primo strumento di emancipazione è il corpo, il secondo è il vestito. Dopo la musica, la moda è la cosa più popolare. Nonostante tutto è democratica. La moda è ben più ampia del lusso».
Le interessa sapere chi sono le sue clienti?
«Moltissimo. Quando parlo con i cosiddetti intellettuali gli ricordo che io sono costretta a conoscere la realtà. Io so — poi non lo so neppure tanto bene — cosa si mette una cinese, una indiana, una newyorkese».
La sua storia personale, essere stata una ragazza di sinistra, il fatto che Prada sia un marchio certo non accessibile a tutti: disagio?
«Mi ha sempre molto turbato, un po’ mi turba ancora, cerco ormai di non farmi turbare più. Però è il mio lavoro, il lavoro che mi sono scelta, cerco di farlo nella maniera più intelligente possibile».
Per esempio?
«Cerco di usare la grande popolarità del marchio per avere rapporti con mondi diversi. Il mondo del cinema, per esempio. Mi hanno detto: (il regista Jean-Luc) Godard, che ormai non va più da nessuna parte, sarebbe intervenuto all’apertura di un museo "solo per conoscere la signora Prada". Così andrò a conoscerlo, sto studiando da un mese e mezzo!».
Come Bruce Springsteen. Pure lui, arrivato a Milano, ha voluto conoscere la signora Prada.
«Diciamo che, con il mio lavoro, ho la scusa per avvicinare personaggi incredibili. Noi collaboriamo con i registi, ufficialmente per metterli sul web, di fatto perché ci divertiamo a lavorare con persone intelligenti».
Un nome?
«Abbiamo provato con Roman Polanski e lui ha risposto "Per Prada, qualsiasi cosa". E ha fatto un film - una finta pubblicità — una cosa così geniale. Insomma, tramite Prada, se voglio fare quella seria, posso portare avanti il mio lavoro in maniera intelligente. Ma posso fare anche le altre cose che mi piacciono e mi interessano. Il mondo del lusso mi piace e non mi piace. Ma intanto lo sto sfruttando, diciamo».
Elsa Schiaparelli ha portato nella moda la cerniera lampo. Una cosa che ha cambiato la vita delle donne. Lei cosa ha inventato? O cosa avrebbe voluto inventare?
«Forse l’uso del vintage... Ma io non ho inventato un oggetto. Ho inventato un modo di rapportarsi alla moda e ai vestiti. Non per essere belle e appetibili, ma per una sorta di riflessione sulle cose della vita. Un senso della libertà del vestire, più mentale che fisico».
Spiegare.
«Per esempio a me piacciono anche le costrizioni. Io sono contraria alla comodità, perché talvolta la comodità è sinonimo di sciatteria. Io sono contraria alla sciatteria sia fisica che mentale. La comodità l’ho sempre contestata, perché preferisco l’impegno. Un vestito è scomodo, scomodissimo? Meglio! Comodo per me non è un valore».
Questa sarà dura spiegarla agli americani: per loro, il comfort è un comandamento.
«Io lo detesto. Tutti vogliamo essere comodi, ma comodi non è una aspirazione».
Chiede una collega: perché è tanto interessata ai grembiuli e agli scamiciati?
«Quello che a me piace sono le vite. Le vite delle donne. Il grembiule è il simbolo della fatica. Fatica che, anche oggi, sotto mentite spoglie, esiste: uguale. Non importa quanto una donna sia emancipata. Prima o poi te la ritrovi a curare i vecchi e i bambini, o a lavorare e rimboccarsi le maniche per mantenere la famiglia».
Una giovane donna mi ha detto: chiedi come devo vestirmi per fare carriera. Non è una domanda banale.
«No, anzi: è una domanda fondamentale. Io le direi: studia».
Studia in genere, o studia come vestirti?
«Studia te stessa, studia il cinema, studia la moda. E capirai quali sono i vestiti che ti servono per esprimere la tua testa. Tanto, per fare carriera, i vestiti non servono a niente, conta il cervello».
Ci sono cautele che nel 2012 una donna deve avere?
«Le cautele che tutti dicono? Non sono d’accordo».
Quali sono le cautele che tutti dicono?
«Di essere a posto, di non esagerare con gli spacchi, coi tacchi o coi colori. Se hai un cervello che funziona, anche se sei vestita male un lavoro lo trovi ugualmente».
Nel blog La 27esima ora la citano: «Cerco di addolcire gli uomini e di dare importanza alle donne». In effetti, anche nel mondo di Internet e dei nuovi media, le femmine sono più eleganti e curate, mentre i maschi vestono spesso in modo sciatto. Forse la sciatteria è un altro modo per segnalare il proprio potere?
«Forse copiano Zuckerberg (cofondatore di Facebook, ndr)».
È da tempo che vestono così.
«Posso dire che chi si veste male è anche ignorante? Io non capisco una persona che ha una bella casa e dei quadri e poi si veste male. Qualcosa non va. Una persona sensibile dal punto di vista estetico non può vestirsi male. Se lo fa ha una debolezza culturale».
Prendiamo tre donne di potere: Angela Merkel, Michelle Obama e Carla Bruni Sarkozy. Ce n’è una che l’ha incuriosita?
«La Merkel. È evidente che non le interessano i vestiti, però è rotonda con se stessa, quindi va bene».
Un abito per Elsa Fornero?
«Per me si veste benissimo così».
Se Miuccia Prada oggi fosse una precaria neolaureata a Milano, cosa farebbe?
«Avrebbe un problema. In fondo l’ho avuto davvero, a suo tempo: cercavo lavoro come laureata in Scienze politiche e avevo capito che non l’avrei mai trovato. Quindi è un casino. La mancanza di lavoro è davvero un problema enorme».
Nell’intervista del 2003 abbiamo parlato anche di Silvio Berlusconi, allora al governo. Ne avrebbe immaginato la traiettoria da allora a oggi?
«Sinceramente non mi stupisce».
Il cognome Prada è un marchio italiano nel mondo. C’è un po’ di frustrazione nel vedersi riconosciuta all’estero più che in patria? Oppure ritiene di aver avuto il giusto anche in Italia?
«No, zero».
Zero?!
«No, zero no. Però non avendo frequentazioni politiche, e non volendo andare in televisione, un po’ non esisti».
Perché questo odio per la televisione?
«Perché velocizza e banalizza, è l’opposto del mio modo di pensare. Per le donne, poi, è ancora peggio. Avrà visto i vari Porta a porta o quant’altro: le donne sono lì perché sono belle. O sono relegate a un cliché. Io non mi ci metto».
È vero che Miuccia Prada decide i colori della stagione? Che detta la linea?
«Abbastanza. Non lo dico per vantarmi, lo dico perché evidentemente ho il senso della moda. La qualità migliore che ho è quella. Io sono modaiola».
C’è un capo nell’armadio cui è più affezionata?
«Forse una gonna a pieghe che resuscita sotto diverse forme».
Ha notato? Un tempo le donne erano nude nell’arte e vestite in società. Oggi, viceversa.
(Ride) «Adesso sono nude anche nell’arte!»
Come vestirebbe la Venere del Botticelli?
«Non sono brava a rispondere a queste domande».
Ripeto: non è un esame. Forse restare seduta così per quaranta minuti le ha risvegliato ricordi universitari.
«Bocciata, dunque?».
Le darei ventotto: lo accetta?
Beppe Severgnini