Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 06 Domenica calendario

AL VIA IL PROCESSO DEL SECOLO ALLE MENTI DELL’11 SETTEMBRE —

Un anno fa i Navy Seals chiudevano la partita militare con Osama. Ieri, a Guantanamo, le autorità militari hanno segnato sul calendario un’altra data simbolo: l’inizio del procedimento speciale contro i 5 terroristi accusati delle stragi dell’11 settembre.
Poco dopo le 9, in un’aula di Camp Justice, sono comparsi Khaled Sheikh Mohammed, alias Ksm, l’uomo che si è assunto la paternità del piano, Ramzi Binalshib, Walid Bin Attash, Mustafa Al Hawsawi e Ammar Al Baluchi. I cinque «cavalieri neri» di Al Qaeda accusati della morte di 2976 persone nelle Torri di New York, al Pentagono e sul jet in Pennsylvania. In una tribuna protetta, un pool di giornalisti e alcuni familiari — sorteggiati — delle vittime del 9/11. Altri parenti, invece, hanno potuto assistere al procedimento collegati, via tv, da alcune basi Usa.
Gli imputati sono entrati nell’aula poco dopo le 9. E hanno cercato subito l’incidente. Ksm, con tunica bianca, turbante e barba «ritoccata» di rosso con l’hennè, si è rifiutato di ascoltare attraverso le cuffie e non ha risposto ad alcuna domanda. Poi è stato il turno di Binalshib, membro della cellula di Amburgo. Ha ignorato la corte guidata dal colonnello James Pohl e si è messo a pregare. Prima ha incrociato le braccia sul petto, quindi si è inginocchiato. Più teatrale Walid Bin Attash. Lo hanno portato dentro incatenato a una sedia: non voleva entrare. Al fianco degli imputati gli avvocati civili. Tra loro Cheryl Borman che, coperta da un velo scuro e una lunga veste chiara, ha chiesto al giudice militare che anche le altre donne presenti indossassero abiti tradizionali musulmani. Questo «per non turbare» il suo cliente.
Per quasi un’ora la scena è stata dominata da legali e corte. Con i terroristi muti e sordi a qualsiasi domanda. Era come fossero assenti. Uno di loro si è messo a leggere il Corano, un altro una rivista, forse l’Economist. Un atteggiamento di non collaborazione spiegato così dai difensori: «E’ una protesta per quello che hanno subito in questi anni e persino poco fa». Un riferimento alle torture alle quali sono stati sottoposti dopo la cattura.
Poi a sorpresa, attorno alle 12, Binalshib ha rotto il codice del silenzio: «Magari ci uccideranno e poi diranno che ci siamo suicidati». Quindi, alludendo alle condizioni nel campo, ha aggiunto: «Qui abbiamo Mohammed Gheddafi». Sortita seguita da una maratona di schermaglie - attraverso i legali - e atteggiamenti di sfida. Dopo 10 ore erano ancora lì a duellare sulla data della prossima udienza. Un assaggio di quello che potrebbe diventare il processo, destinato a durare mesi o «forse anni», con i terroristi protagonisti di uno show mediatico. Per questo la Casa Bianca ha rinunciato a trasferirlo in un’aula civile di New York. Scelta criticata dalle associazioni che difendono i diritti umani, convinte che il processo non sia equo e deluse dalla mancata chiusura della prigione. Se lo aspettavano perché Barack Obama lo aveva promesso prima di essere eletto.
Risvolti comunque lontani dalla mente dei familiari di chi è stato ucciso. Cliff Russel, fratello di un pompiere perito nel crollo delle Torri Gemelle, è stato esplicito. «Ho tutte le prove che mi servono. Sono d’accordo sulla pena capitale per gli imputati. Anzi, mi auguro la morte più terribile possibile per loro». Un punto che trova d’accordo anche Khaled Sheikh Mohammed. In passato ha espresso il desiderio di «morire da martire». Dia tempo, il boia lo aspetta.
Guido Olimpio