Carlo Cambi, Libero 5/5/2012, 5 maggio 2012
SONO FIGLIO DI UN SUICIDA E MONTI MI RUBA LA CASA
Illustrissimo professore, senatore, Presidente del Consiglio Mario Monti, sono un cittadino italiano e le scrivo per raccontarle una storia che forse le servirà nella sua illuminata azione di Governo. Mia madre è affetta da morbo di Alzheimer. Sto violando la privacy di questa donna che mantiene, pur nella sua inconsapevolezza, un piglio aristocratico, e ne sono consapevole. Ma che vuole farci: viviamo in un Paese dove ci spiano le telefonate, dove ci viene occhiutamente controllato il conto corrente, dove si invita alla delazione tant’è che il Garante ha, con estrema timidezza, richiamato Lei e il suo Governo ad avere un po’ più di rispetto per le nostre cose.
L’UNICA IMMAGINE
Come lei sa i malati di Alzheimer perdono via via la memoria e le capacità cognitive. A mie spese mia madre viene assistita perché la sua modestissima pensione sociale non le consentirebbe forse neppure di sopravvivere. Capita che non mi riconosca. Ma dalle nebbie della sua non-coscienza appare ossessivamente una sola immagine: la sua casa. Mi sono deciso a scriverLe quando ieri mia madre mi ha salutato come fossi un estraneo e poi ha tirato fuori una carta da 5 euro perché la riportassi nella sua casa. E mi ha detto: quella è la mia vita, me l’ha comprata babbo quando mi sono sposata, lì c’è nato mio figlio che non vedo da tanto tempo, lì ci sono io, lì voglio morire.
Capisce, professor Monti? Lei sta tassando la casa agli italiani e nel frattempo esenta – per dirne una – le Fondazioni Bancarie. Ma lei sta mettendo la tassa sulla vita! Le dirò che quella casa nei decenni ha fruttato al fisco decine di migliaia di euro di tasse.
L’abbiamo rivalutata due volte per complessivi 30 mila euro versati all’erario, ci paghiamo un’Ici di 2.400 euro, ora non so quanto sarà il conto dell’Imu.
STATO PREDATORE
Io sarò costretto a vendere quella casa dove mia madre non abita più perché non ce la faccio a sostenere il peso della sua assistenza e delle tasse che lei mi sta imponendo. Mia madre non potrà morire nella sua casa perché lo Stato me la sta portando via. Spero che accada il più tardi possibile, ma alle esequie di mia madre io la inviterò: mi auguro che venga.
Vede professor Monti – ora violo la mia di privacy – io sono figlio di un imprenditore suicida. Mio padre decise di togliersi la vita nel ’77 ai tempi dello choc petrolifero. Avevamo da più di un secolo una distilleria. Attorno a quella fabbrica si era sviluppato un paese, ma il Comune – giustamente – pretendeva che la spostassimo. Mio padre fece le pratiche: si indebitò per costruire la nuova fabbrica. Le autorizzazioni non arrivarono mai. Nel frattempo la tassa sugli alcoli venne raddoppiata e il prezzo dei combustibili che alimentavano le nostre caldaie raddoppiò. Anche allora i pagamenti da sessanta giorni che erano arrivarono fino a sei mesi. Per ogni cisterna di grappa che mio padre faceva uscire dallo stabilimento doveva anticipare allo Stato 33 milioni di allora su un ricavo lordo stimato di 75 milioni che avrebbe introitato sei mesi dopo e sul quale avrebbe pagato altre tasse. Non reggeva più l’equilibrio finanziario dell’azienda per la semplice ragione che doveva anticipare cash l’imposta di fabbricazione e l’Iva della fattura e che l’incasso diventava troppo dilazionato. Anche allora bastarono un paio di fallimenti di nostri clienti – e la Giustizia andò avanti per venti anni prima di dirmi, mio padre non c’era più nel frattempo, che non avremmo visto una lira – per toglierci completamente ogni liquidità. Mio padre tentò di fare una fornitura all’Esercito. Gli chiesero il pizzo che non pagò.
DISPERAZIONE
Accadde una sera che il nostro apparecchio di distillazione – in piena campagna di lavorazione – si bucò. Capita per usura del rame. La Finanza e l’Utif vennero avvisati, la lavorazione fu bloccata. Arrivarono due giorni dopo a fare i controlli. Uno dei funzionari aveva deciso di rinnovare la cucina alla moglie. E disse a mio padre se lui poteva essere così gentile da accompagnare la sua signora a scegliere la nuova cucina. Mentre diceva questo faceva, con la nonchalance tipica degli atteggiamenti mafiosi, intravedere a mio padre un verbale di accertamento con la sanzione di 3 miliardi di lire. Credo che in un appartamento di Livorno ci sia ancora una “Schiffini” extralusso. Non so chi l’abbia pagata. So che l’accertamento fu molto più mite. Quindici giorni più tardi mio padre pendeva da un albero nella pineta di Montenero.
Oggi quella fabbrica non c’è più, non ci sono più i cento operai, non c’è mio padre. Al loro posto ci sono degli appartamenti turistici, semideserti visto che la crisi uccide anche il turismo, costruiti dalle banche che ci portarono via tutto. Avevo 21 anni allora. Ho salvato solo la casa di mia madre, perché sapevo che era la sua vita. Oggi dovrò vendere anche quella casa.
Con ossequi.
Carlo Cambi