Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 07 Lunedì calendario

PEZZI SULLE ELEZIONI DEL 6 MAGGIO IN EUROPA


CORRIERE DELLA SERA
S.MON.
PARIGI — Nicolas Sarkozy abbandona l’Eliseo con un grande discorso e un sorriso triste sulle labbra, il nuovo presidente François Hollande prende su di sé il potere supremo con aria grave e parole concrete, prive di lirismo, adatte alla circostanza: il difficile viene adesso. Dopo oltre un anno di campagna elettorale, il socialista riporta la gauche all’Eliseo per la prima volta dal 1995 (fine dell’era Mitterrand). «Se non torniamo al potere si porrà la questione della stessa esistenza della sinistra», diceva solo qualche mese fa Hollande che oggi — con il 51,7% dei voti — non solo conquista la presidenza francese, ma raccoglie su di sé le speranza di molti europei.
«Porteremo il cambiamento in Europa, l’austerità non è una fatalità», ha detto Hollande nel primo discorso da presidente a Tulle, in Corrèze, la sua circoscrizione elettorale. A Parigi, la segretaria del partito socialista Martine Aubry si è affacciata dalla sede del partito per salutare la folla accompagnata dal premier belga Elio Di Rupo, e Hollande ha dichiarato che avrebbe parlato per prima cosa con «gli amici tedeschi» per rassicurarli del legame con la Francia e convincerli della necessità di rifondare la politica europea di uscita dalla crisi. I primi atti anche simbolici della presidenza Hollande sono chiari: finito Merkozy, si tratta di «dare un nuovo inizio all’Europa».
In un discorso emozionante, pochi minuti prima Nicolas Sarkozy aveva fatto appello ai suoi elettori perché unissero gli sforzi con gli avversari «per il bene superiore della Francia». Il compito che attende Hollande è notevole: l’economia francese è sotto la minaccia di una nuova degradazione del rating da parte di Moody’s, e allo stesso tempo il nuovo presidente dovrà dare seguito alla sua promessa di aggiungere un capitolo «crescita» al trattato di stabilità europeo, in vista del vertice di Bruxelles di fine giugno.
Hollande ha tempi strettissimi per la formazione del governo, perché gli impegni esterni lo attendono: il vertice Nato a Chicago e il G8 a Camp David a fine maggio, e il G20 in Messico a giugno. Sarà il debutto sulla scena internazionale di un presidente a lungo accusato di non avere esperienza con i capi di Stato. Ma da settimane la sua équipe, in previsione della vittoria, aveva cominciato a lavorare con i partner stranieri, soprattutto a Bruxelles.
Il nuovo presidente dovrà scegliere per prima cosa il capo del governo: Martine Aubry probabilmente, o il direttore di campagna Manuel Valls. Michel Sapin, responsabile del programma presidenziale, amico da 35 anni e braccio destro del presidente, potrebbe essere chiamato a fare valere la sua competenza economica alle Finanze, il ministero chiave in questo momento, mentre Laurent Fabius, che sotto Mitterrand fu il più giovane primo ministro della V Repubblica, potrebbe diventare ministro degli Esteri.
L’agenda politica di Hollande è già definita: le prime due azioni simboliche saranno la presa di contatto con la cancelliera tedesca Merkel, e la riduzione del 30 per cento del compenso per presidente e ministri. Poi, aumento del 25% degli aiuti alle famiglie per le spese scolastiche, blocco per tre mesi dei prezzi del carburante, sgravi fiscali per garantire ai giovani l’accesso all’alloggio e, soprattutto, la rinegoziazione del trattato europeo di stabilità.
S. Mon.

CORRIERE DELLA SERA
ALDO CAZZULLO
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI — Il vincitore si commuove, ascoltando le fisarmoniche suonare «La vie en rose» abbracciato alla sua compagna, sul sagrato di una cattedrale di provincia; al partito i notabili brindano alle poltrone che li attendono; in piazza della Bastiglia esplode la gioia dei ragazzi di Parigi; mentre la metà della Francia che ha votato Sarkozy si morde le mani, e i tanti che hanno scelto Hollande per la sua normalità sentono di aver eletto non il presidente della Quinta Repubblica, ma l’amministratore di una provincia d’Europa.
È un altro Maggio francese a segnare la storia del continente, dopo quello del 1968 chiuso dalla restaurazione gollista e quello del 1981 segnato dalla vittoria di Mitterrand. Trentun anni fa, alla Bastiglia si incontrarono le élite parigine e i popolani venuti dalle periferie, molti con una rosa rossa nel pugno. La sinistra era ancora operaia, e il poeta comunista Louis Aragon commentò: «Per una volta la Gauche non si riunisce dietro una bara» (Aragon morì l’anno successivo). Ora gli operai votano in maggioranza per Marine Le Pen, il Ps è un partito di insegnanti e funzionari; la vera novità rispetto all’81 è la festa multietnica. Senegalesi e algerini si abbracciano, sconosciuti si versano da bere l’un l’altro, ci si bacia sulla bocca tra maschi e tra femmine; poi tutti insieme si tengono per mano e intonano cori contro lo sconfitto – «Sarkozy c’est fini!» — più che per il vincitore.
Ora il volto pingue di François Hollande compare al maxischermo, davanti alla cattedrale di Tulle. Il nuovo presidente tenta di darsi un profilo solenne, nazionale: «Noi non siamo un Paese qualunque sul pianeta, una nazione qualunque del mondo. Noi siamo la Francia. E non esistono due France, la Francia è una sola…».
Ripete le parole di Mitterrand: «Sarò il presidente di tutti». Poi si lascia trasportare dalla festa, e ritrova la sua ironia: «L’ho fatta restaurare io, questa piazza, quand’ero sindaco. Alla fine è tornata utile. Se avessi immaginato che un giorno… ma sì, che l’avevo immaginato!». Niente marsigliese. Dopo «La vie en rose», le fisarmoniche suonano «Bella ciao».
Tulle non è casa sua. Hollande è nato il 12 agosto 1954 a Rouen, in Normandia. Ha fatto il liceo a Neuilly, il sobborgo parigino dov’è cresciuto anche Sarkozy. Poi Sciences Po e l’Ena: le scuole dove si formano i politici, che si scelgono un feudo di provincia dove farsi eleggere e passare piacevoli weekend enogastronomici. Hollande ha scelto il capoluogo della Corrèze, per ragioni di visibilità: qui alle legislative del 1988 sfidò il premier uscente, Jacques Chirac. Perse, ma si fece notare. Ieri pure Chirac ha votato per lui, in odio a Sarkozy: come milioni di francesi non di sinistra, compresi molti elettori di Marine Le Pen, che non sopportavano più il vecchio presidente.
«Piccolo fascista ungherese!», grida a pieni polmoni un ragazzo antillano: giudizio ingeneroso, persino razzista, che però genera un applauso sotto la colonna della Bastiglia. Qui sorgeva la prigione simbolo della tirannia, qui sono sepolti i resti dei martiri del luglio 1830, la rivoluzione che abbatté i Borboni e ispirò a Delacroix la tela politica per eccellenza: «La libertà che guida il popolo». Stasera i tricolori sono molti ma si perdono nella folla delle bandiere. Ognuno ha portato la sua: rossa, arcobaleno, europea, palestinese; visti anche il vessillo del movimento gay e quello bretone.
La sera del 10 maggio 1981 Mitterrand in piazza non si fece vedere. Rientrato anche lui dalla campagna, prenotò per festeggiare con i suoi cari un intero piano della vicina brasserie Bofinger, poco meno costosa di Fouquet’s, dove Sarkozy brindò cinque anni fa. Hollande è attento a non cadere nello stesso errore. Il suo primo provvedimento sarà abbassarsi lo stipendio del 30%. A Parigi lo porta un aereo privato, ma all’aeroporto di Tulle va su un’utilitaria grigia. Appare quasi spaventato dalla ressa delle telecamere. Ripete: «Avrò due preoccupazioni, i giovani e l’uguaglianza». Dice di «avvertire il sollievo di tanti europei per cui ora l’austerity non è più una fatalità».
Il suo ingresso all’Eliseo segna non solo un cambio di stile rispetto a Sarkozy, ma anche un passaggio generazionale a sinistra. Mitterrand si faceva dare del tu solo dai compagni di prigionia nel lager nazista in Turingia, anche Jospin preferiva il «voi»; Hollande dà e si fa dare facilmente del tu. Quando gli dissero che era stato eletto, Mitterrand stava parlando alla giovane Anne Sinclair — futura sposa di Dominique Strauss-Kahn — della sua amata foresta di Morvan. Si interruppe per un attimo, si preoccupò che ci fosse champagne per tutti, e riprese la conversazione dove l’aveva lasciata. Hollande è saltato in piedi, le braccia al cielo, circondato dai collaboratori e dal primogenito, Thomas, in lacrime. Ha ricevuto i complimenti da Sarkozy, ha chiamato Ségolène Royal, la compagna di trent’anni. Lei stessa ne ha dato notizia alle telecamere: «François è felice ma anche consapevole dell’immensità del compito». Al suo fianco c’è la nuova compagna, truccatissima per l’occasione, Valérie Trierweiler, che si attacca a Twitter: «Orgogliosa di essere al fianco del presidente, felice di dividere la vita con i francesi».
L’altra Francia però esiste, e piange. In senso letterale. A Saint-Germain i militanti hanno ascoltato in lacrime il discorso d’addio di Sarkozy, quasi il commiato di un’artista ai fan: «Grazie per quanto mi avete dato! Vi amo!». Stasera i francesi non hanno scelto un monarca o anche solo un personaggio, ma un funzionario che già la prossima settimana dovrà andare a Berlino a vedersela con la Merkel, prima di volare in America per il G8 e il vertice Nato, dove dirà a Obama che intende ritirare entro l’anno le truppe dall’Afghanistan. Ma il vero obiettivo, lo ripete anche stasera, è «riorientare l’Europa verso la crescita».
Alla Bastiglia arrivano i possibili primi ministri, Martine Aubry e Jean-Marc Ayrault. Il sindaco Bertrand Delanoë annuncia che per la prima volta il candidato di sinistra all’Eliseo ha prevalso a Parigi. Molto acclamati l’ex premier Lionel Jospin e l’ex tennista Yannick Noah, che ora fa la rock star. Si intona Bandiera rossa, in italiano, e si ride: «Da stanotte non si sentirà più cantare Carla Bruni...». Ségolène Royal dà fondo alla retorica — «Saremo la voce dei senza voce, renderemo visibili gli invisibili...» —, poi, quando vede arrivare Hollande con la nuova compagna, si defila.
La folla ora è immensa, almeno 200 mila persone. Per vedere il neopresidente si arrampicano sui cartelli stradali, sugli alberi, sui semafori, sul basamento della colonna. Lui tiene un discorso asciutto, con una sola nota solenne, rivolta «a tutti i popoli d’Europa, perché imitino i francesi, perché vedano che l’austerity non è una fatalità». Poi finalmente si canta la Marsigliese. Alla festa si uniscono i giovani che escono dai locali del Marais e si scambiano spinelli. Gli homeless si stendono sul marciapiede, ci sono anche madri con i figli piccoli. Sarebbe dovuta essere la notte di Strauss-Kahn, ora condannato all’oblio: l’altra sera Hollande ha rimproverato un collega di partito per averlo invitato al suo compleanno. E’ anche un po’ la notte dell’uomo che da sedici anni giace in un cimitero di campagna, a Jarnac, sotto la più semplice delle lapidi: «FRANCOIS MITTERRAND,
1916-1996”».
Aldo Cazzullo

CORRIERE DELLA SERA
ELISABETTA ROSASPINA
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI — «Dobbiamo essere grandi nella sconfitta» dice ai suoi fedeli, pigiati e accaldati nell’auditorium della Maison de la Mutualité, a Parigi. Ed è probabilmente quello che ha ripetuto a se stesso Nicolas Sarkozy, per tutta la giornata, la sua ultima giornata da sesto presidente della quinta Repubblica francese. Si era lanciato alla carica, cinque anni fa, in groppa a un cavallo bianco, i ray ban da top gun e una grinta imperturbabile, nonostante stesse per diventare il primo presidente piantato in asso dalla moglie, la ribelle Cecilia, sull’altare dell’Eliseo.
Lascia con la mano sul cuore e una dichiarazione d’amore alla Francia, strappando l’ultimo, sfrenato applauso: «Je vous aime. Merci!», come una star si congeda dal palco. Ed è davvero l’addio: «Si apre una nuova epoca e in questa nuova epoca io resto uno dei vostri... Ma il mio posto non sarà più lo stesso». Era previsto, ufficiosamente confermato già da qualche ora, ma non tutti si aspettavano di sentirgli annunciare: «Mi appresto a ridiventare un francese fra i francesi». E considerare, in tutta umiltà: «Non potrò mai restituirvi tutto quello che mi avete dato».
Fin dal suo insediamento era stato criticato per i suoi modi da nuovo ricco, la tavolata da Fouquet’s, nella sera della vittoria, quel beffardo sottofondo «bling bling» che accompagna nei commenti salottieri l’ascesa di un parvenu: agguerrito, perfino carismatico, ma pur sempre sbucato dal nulla.
Se ne va, sfoderando un discorso che dovrebbe valergli almeno l’onore delle armi: «La Francia ha un nuovo presidente. È stata una scelta democratica e deve essere rispettata», alza la voce per sovrastare i «buuuh-buuuh» dei suoi elettori al riferimento a François Hollande. Non diamo il cattivo esempio, li riprende Sarkò: «Non sarò mai come quelli che abbiamo combattuto. Ci siamo appena parlati al telefono e gli ho augurato buona fortuna. Spero che la Francia riesca a superare le prove che l’aspettano».
Mediaticamente, Sarkozy si è preso così la sua rivincita, anticipando di un’ora Hollande davanti alla nazione, e impedendogli di essere il nunzio della sua detronizzazione. Non si è trincerato dietro la speranza di un conteggio finale «sul filo del rasoio», come pronosticava spavaldamente solo 48 ore prima: «I risultati saranno contestati come per Bush in Florida nel 2000».
Sette minuti dopo la diffusione degli exit poll, il corteo di auto blu ha lasciato il palazzo dell’Eliseo per portare il presidente a riconoscere la sua sconfitta: «Ne ho tutta la responsabilità. Non sono riuscito a far vincere le idee, i valori cui avete creduto e cui sono profondamente attaccato».
Una regia perfetta. Anche se fosse stata preparata a tavolino, nel suo ultimo pomeriggio da titolare all’Eliseo. La certezza matematica di avere perduto, Nicolas Sarkozy l’ha avuta attorno alle 15.30 quando, nel suo ufficio, attorniato dai suoi più stretti collaboratori, ha letto il primo bollettino, provvisorio ma categorico, sul voto dei francesi, con uno scarto che cancellava qualunque speranza di foto-finish.
In mattinata, poco prima delle 11 e 30, aveva già avuto le cattive notizie dell’elettorato d’oltremare: 72% di voti per Hollande in Guadalupa, quasi il 66% in Martinica, il 62% in Guyana, il 53% in Polinesia. Soltanto Noumea e Papeete gli sono rimaste fedeli.
Ciononostante, si era stretto la cravatta blu sulla camicia bianca e, mano nella mano con la terza moglie, Carla Bruni, si era avviato al seggio del liceo Jean de la Fontaine per l’ultima commedia dei sorrisi. Ostentatamente la coppia presidenziale ha preso soltanto la scheda elettorale che portava il loro cognome, prima di infilarsi dietro la tenda color bordeaux che avrebbe dovuto proteggere il segreto del voto. Era così concentrata nella sua ultima interpretazione di prémière dame che la signora Sarkozy stava dimenticando di riprendersi la carta d’identità: un atto mancato da manuale di psicanalisi.
Elisabetta Rosaspina

CORRIERE DELLA SERA
MASSIMO NAVA
La sinistra torna al potere in Francia. Per la seconda volta, dal dopoguerra, un socialista entra all’Eliseo, trentuno anni dopo François Mitterrand. La scelta dei francesi è consapevole e netta, come dimostrano l’altissima partecipazione al voto e il progressivo movimento di adesione al progetto e alla persona di François Hollande. La festa alla Bastiglia, il luogo simbolico della Rivoluzione, e lo sventolio di bandiere (molte tricolori, poche rosse) davanti alla sede di rue Solferino, non esaltano il senso di una svolta epocale, come fu quella del programma comune della gauche e delle nazionalizzazioni. Offrono però una bella suggestione rievocativa per il popolo socialista, dopo il lungo digiuno e tante sconfitte, e un sogno alle nuove generazioni cresciute con la destra al potere. Il messaggio di questo maggio francese, al tempo della crisi, del declino civile e dell’antipolitica, è dunque carico di speranza. Per la Francia, e per l’Europa che guarda la Francia.
Scegliendo l’uomo normale, il candidato di riserva, il leader senza carisma, la Francia ha voluto innanzi tutto chiudere la deludente stagione di Sarkozy (qualcuno l’ha definita esotica, rispetto ai canoni della politica dell’esagono) e affidarsi al candidato che ha messo al primo posto giustizia sociale e salvaguardia del modello di diritti e servizi che costituisce l’ossatura della società francese. Con calma e buon senso.
Una scelta anche di difesa, contro l’Europa dei sacrifici senza equità, del rigore senza crescita. Poteva essere soltanto una scelta di paura e rigetto, come l’avanzata del Fronte nazionale di Marine Le Pen lasciava temere. Alla fine, difese e paure si sono diluite in una vittoria tranquilla, in un progetto che rassicura una società inquieta e lacerata. Europeista convinto e maestro di mediazione, Hollande ha compiuto un capolavoro di sensibilità e strategia nel tenere insieme, in un’agenda che richiede anche risanamento dei conti pubblici, le aspettative della sinistra e almeno di una parte dell’elettorato moderato, quella che ha fatto la differenza nel voto di ieri.
La Francia di Hollande non sogna più il socialismo in un solo Paese, ma un po’ più di socialdemocrazia in Europa. Trozkisti, comunisti e la galassia dell’estrema sinistra hanno sostenuto Hollande, ma non ci sono proclami ideologici, né patti elettorali da rispettare, salvo un accordo con i verdi in alcune circoscrizioni alle prossime legislative. Hollande è l’unico emulo di Mitterrand, ma pensa all’Europa di Delors e non vorrà farsi condizionare dal massimalismo giacobino riaffiorato durante la campagna elettorale. Nell’ipotesi probabile di una vittoria anche alle legislative di giugno, avrà le mani libere, in una Francia tutta rosa, dai municipi all’Eliseo. Uno scenario che aggraverebbe la sconfitta, ieri onorevole, di Sarkozy e della destra.
La Francia socialista dice che un’altra via è possibile, che esiste un’alternativa ai dogmi della finanza e delle agenzie di rating, che l’Europa di oggi non è per i cittadini e non ha futuro. Hollande, che ha promesso di ridiscutere il fiscal compact, avverte su di sé e sulla Francia le aspettative dei popoli europei e l’attenzione di molti governi, in primo luogo quello di Angela Merkel, che ha già avviato discreti contatti con il vincitore.
Il largo consenso e l’approccio morbido ai problemi potranno aiutarlo, le difficoltà che lo attendono restano però enormi. L’elettorato che lo ha portato all’Eliseo è composto in maggioranza di impiegati pubblici e lavoratori garantiti, con un forte potere d’interdizione che è costato caro anche a Sarkozy. Una parte della classe agiata teme più forti tassazioni ed è sul piede di guerra. L’imprenditoria chiede che la salvaguardia del modello sociale non penalizzi mercato e competitività. Ruolo dello Stato e intervento pubblico restano preponderanti nell’attuazione del programma, nonostante l’esplosione del debito e i costi della macchina amministrativa. Secondo molti osservatori, le misure annunciate — dalla scuola alle pensioni — sono incompatibili con il risanamento del bilancio dello Stato. Anche Hollande, come in parte è avvenuto per Sarkozy, dovrà mettere nel conto chiusure corporative, rischi di esplosione sociale, resistenze al cambiamento: i sintomi ricorrenti della malattia francese, l’immobilismo anche sotto un cielo rosa.
Massimo Nava

CORRIERE DELLA SERA
GIANLUIGI PARACCHINI
Provocherà problemi diplomatici il fatto che lei e Hollande non siate sposati? Interrogativo insidioso anche per chi da molti anni lavora quotidianamente con le domande. Ma la giornalista, neo première dame, non mostra timidezze: «Problemi magari per una visita al Papa? Non mi preoccupo affatto. La questione del matrimonio resta prima di tutto un aspetto della nostra vita privata».
Sarà sempre così? Vedremo. Di certo le elezioni che possono ridiscutere i destini dell’Europa certificano per ora una verità: la coppia di fatto, ritenuta un tempo sconveniente se non addirittura peccaminosa, è definitivamente matura anche per il potere politico. L’entrata trionfale all’Eliseo del socialista François Hollande e della giornalista Valérie Massonneau, sette figli in due, mai sposato lui, divorziata Trierweiler lei, è l’esordio assoluto di due «diversamente accasabili» nella storia francese.
Finiranno prima o poi, come è accaduto a Sarkò e Carlà, con il convolare a nozze in corso d’opera, giusto per far capire come non abbiano grilli per la testa? Non sembra a giudicare dai primi passi della potenziale sposa. E in ogni caso il confronto non regge visto che il rivale aveva sì sposato l’ex modella già presidente ma vincendo le elezioni come affezionato marito di Cécilia (che poi lei l’abbia mollato con sollievo cinque mesi dopo, lasciandolo all’Italienne è un’altra storia).
A quale tipologia di première dame apparterrà dunque Valérie? Di sicuro non in linea con la vecchia definizione («Bisogna essere perfette padrone di casa dell’Eliseo») data da Bernadette Chirac. «Siamo in un’epoca diversa — è la risposta — e in campagna elettorale le donne m’hanno chiesto di mantenere a tutti i costi la mia indipendenza: questo è un grande messaggio per tutte le donne».
L’altro messaggio è che la compagna di Hollande non manca di certezze, di autostima e nemmeno di senso pratico. «Conosco la politica e conosco i media: per me l’Eliseo sarà molto più facile di quanto non sia stato per Carla Bruni. Lei veniva da un mondo totalmente estraneo a quello della politica, non conosceva i codici. Inoltre ho bisogno di guadagnarmi da vivere e non troverei normale che lo Stato o François si facessero carico dei miei tre figli».
A un certo punto Valérie, giusto per rinforzare il concetto d’indipendenza, l’ha buttata lì anche un po’ grossa, ipotizzando che d’accordo con il compagno-presidente non abiteranno all’Eliseo. «Però — corregge — i servizi di sicurezza ritengono che non sarà possibile continuare a vivere nel nostro appartamento perché bisognerebbe bloccare la strada, controllare i residenti, insomma è davvero troppo complicato». Pasionaria d’un nuovo corso o semplice esagerazione nel democratizzare ai massimi la propria immagine? Forse entrambe le ipotesi.
Decisamente più casual invece François, segnatamente sulle tematiche matrimoniali. Dicono di lui che abbia conquistato la compagna facendola ridere con spiritosaggini tipo «ho il sedere basso». Ma nelle battute fuori dal seggio non è andato al di là di un laconico «mi sento come a una domenica di ballottaggio».
La storia di Valérie e François, coppia di fatto al potere, trova il suo controcanto in quella, consolidata, del presidente tedesco Joachim Gauck. Gauck, 72 anni, ex pastore evangelico, dunque con un alto senso della famiglia, s’è ben guardato dal divorziare dalla coetanea moglie Gerhild, mamma dei suoi quattro figli, nonostante dal 2000 convivesse pure lui con una giornalista: Daniela Schadt, di vent’anni più giovane. Invece di andare dagli avvocati, l’ammirevole, permissiva Gerhild ha addirittura lanciato un democratico assist al libertario marito con una dichiarazione che l’ha resa simbolo globale di quel vasto universo maschile che, senza drastiche rinunce, tiene il piede in due o più scarpe: «La società di oggi accetta forme diverse di relazione».
Alto senso dello Stato o puro masochismo? È comunque paradossale che il fronte tedesco-francese, pur se annebbiato da incertezze del domani, abbia involontariamente concordato insieme l’ultimo, decisivo sdoganamento delle coppie di fatto. I tempi sono davvero cambiati: nel ’98 perfino l’irriducibile convivente Angela Merkel era stata convinta a sposare il fidanzato Joachim Sauer. Naturalmente per una diplomatica questione di convenienza.
Gian Luigi Paracchini

CORRIERE DELLA SERA
MARIA LAURA RODOTA’

«L’italiana lascia l’ungherese. Ripeto: l’italiana lascia l’ungherese». Ieri su Radiolondres, l’hashtag di Twitter in cui si davano e si commentavano i sondaggi di straforo (di straforo per milioni di utenti), sul caso-Carlà c’era un accanimento unanime. L’altoborghese ricchissima-supermodel-cantautrice-seduttrice poliandrica-first lady (ex) più ganza del mondo veniva trattata come una Rosi Mauro d’alta gamma. Come una femmina, diciamo, strumentale. Tra le battutacce più frequenti: «Carla Bruni è sul mercato!», «Video sexy di Carla Bruni con Hollande», «Carla Bruni ha aggiornato il suo status di Facebook, da “sposata” a “singola”», «Avvistata cantautrice stonata con chitarra all’aeroporto di Roissy», «Carla Bruni rifugiata all’ambasciata italiana», «Carla Bruni ha mandato un sms a Francois Hollande: “Quelq’un m’a dit (titolo della sua canzone più nota, ndr) che tu mi ami», «Carla Bruni ha votato presentando il passaporto, è pronta a lasciare il Paese».
In realtà, Bruni dopo aver votato si è dimenticata il documento al seggio elettorale. Era arrivata con una frangia recente e una sciarpa annodata tipo pacco regalo; e un marito, Nicolas Sarkozy, che davanti ai fotografi le baciava una spalla. Venivano da casa di lei, nel comprensorio stralusso di Villa Montmorency, nel Sedicesimo Arrondissement; la zona più ricca ed elegante di Parigi, l’unica dove Carlà era stata protagonista di un evento elettorale. Insomma, un evento da Sedicesimo e per signore, più o meno tre dozzine, a casa di un’amica. Durante il resto della campagna, non si era spesa molto. Forse per indole, forse a causa di un’intervista disastrosa in cui spiegava che lei e il marito «erano gente semplice», e che lei guardava reality e soap opera con in braccio la poppante Giulia, proprio come le mammine normali, e l’avevano parecchio presa in giro. Soprattutto, perché Carlà è stata tutt’altro che popolare. Era vista come una moglie-trofeo, acciuffata da Sarkozy come rivincita personal-mediatica poche settimane dopo essere stato lasciato dalla moglie Cécilia. E come un’incarnazione di quel che molti francesi si sono presto resi conto di non sopportare di Sarko: l’esibizionismo personale, l’ossessione per l’immagine, la spasmodica necessità di essere vicino ai ricchi e famosi. La «rupture» sarko-bruniana dopo coppie presidenziali segretamente scassate e ufficialmente dignitosissime (Francois Mitterrand e l’impegnata Danielle, Jacques Chirac e la pia Bernadette) non era piaciuta a nessuno. Non ai benpensanti bon chic bon genre. Non ai francesi di sinistra, ovviamente, l’ex gauchiste elegante Carlà gli è subito andata di traverso. E di sicuro non ai francesi normali.
Morale, l’opinione pubblica francese e non solo è parsa ben lieta di scherzare sulla sconfitta elettorale di Carlà. E sul suo matrimonio che pochi ritengono fondato su una bruciante passione. Il tutto fa ridere, lei è antipatica, il gioco è facile. Oggi è difficile riconoscere nella signora tirata con grandi zigomi costosi la ragazza insicurissima del film «E’ più facile per un cammello…» diretto da sua sorella Valeria Bruni Tedeschi (Carlà era interpretata da Chiara Mastroianni); agitata, psicoterapia-dipendente, sconvolta quando le dicono che il papà morente non è il suo vero padre.
«Io la conosco, è una buona persona, l’ho molto ascoltata e capisco che si definisca una persona modesta», dichiarava ieri Jacques-Alain Miller, psicanalista genero di Jacques Lacan: «È molto interessata alla psicanalisi, lei stessa è in analisi». E come non capirla. Specie leggendo tanti commenti online, Come: «Chi sposerà Carla Bruni ora? Una volta ha detto di volere “un uomo dalla potenza nucleare”. Kim-Jong-Un della Corea del Nord è ancora scapolo, mi pare». Pare. Comunque, ora altro giro, altro Eliseo. Ora si preannuncia un nuovo feuilleton, più da ceto medio riflessivo, però interessante. Ci sarà un presidente con una ex compagna (Ségolène Royal) ex candidata presidente, e una fidanzata (Valérie Trierweiler) che sarà la prima première dame non sposata (ci sono anche sette figli in totale, di varie età).

CORRIERE DELLA SERA - ELEZIONI IN GRECIA
DAVIDE FRATTINI
DAL NOSTRO INVIATO
ATENE — I partiti anti-austerità, anti-Europa, anti-Angela Merkel insieme arrivano al 50%. I greci scelgono loro e puniscono Nuova Democrazia e il Pasok, che per quarant’anni hanno dominato la politica del Paese. I gruppi del no a Bruxelles vanno dai neonazisti di Alba d’oro, che per la prima volta entrano in parlamento con una ventina di deputati, alla sinistra radicale di Syriza, che scalza i socialisti — predicono le proiezioni — e si piazza al secondo posto. Non sono una coalizione ed è improbabile che possano diventarlo.
I conservatori e i socialisti avrebbero invece i deputati per governare (ne servono almeno 151) in nome di quell’«unità nazionale» che Evangelos Venizelos, leader del Pasok, invoca poche ore dopo la chiusura delle urne. Da ministro della Finanze ha negoziato il Memorandum, l’accordo sul debito con l’Unione Europea, la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale. Da ministro delle Finanze ha deciso i tagli e le mosse anticrisi che i greci hanno dimostrato di non voler più sopportare. Il Pasok crolla dal 44% del 2009 a poco meno del 15%. Sotto accusa finisce soprattutto George Papandreou, premier fino al novembre del 2001, quando è stato costretto a farsi sostituire dal tecnico Lucas Papademos.
Antonis Samaras vince e si prende i 50 deputati come premio di maggioranza. Se le proiezioni sono confermate, riceverà dal presidente Karolos Papoulias il mandato di provare a formare il governo, anche se il suo centrodestra perde quasi il 13 per cento e l’appoggio di forze nazionaliste come il Laos di George Karatzaferis che potrebbe non superare la soglia del 3 per cento, il limite per entrare in Parlamento.
I dirigenti di Nuova Democrazia avevano avvertito del rischio di dover tornare a votare in giugno. Adesso Samaras promette di voler mettere insieme l’esecutivo che permetta di «restare nell’euro». Chiede però di rinegoziare l’intesa siglata con la Troika, il piano che dovrebbe risanare un Paese da cinque anni in recessione e con la disoccupazione balzata al 21 per cento: altri tagli di bilancio per circa 11,5 miliardi di euro nel biennio 2012-13 in cambio di 130 miliardi di aiuti. Un piano che ha fatto dire a Papandreou — in un’intervista al settimanale americano Time — «l’Europa ci ha usato come cavia da laboratorio».
Più o meno le stesse parole che potrebbero scegliere Alexis Tsipras, leader di Syriza e a 37 anni il più giovane politico greco, e Panos Kammenos, la guida dei Greci Indipendenti, che ha portato il suo partito al 10 per cento. Hanno posizioni molto diverse (su come trattare gli immigrati, tra l’altro), sono d’accordo su come gestire il debito del Paese. Kammenos già propone l’alleanza: se Samaras non riuscisse entro tre giorni a formare il governo, la seconda posizione nei risultati darebbe a Tsipras la possibilità di provarci. Il numero di deputati previsto dalle proiezioni non gli dà molte speranze. «Faremo di tutto per cancellare da subito — proclama Tsipras — il Memorandum della bancarotta. I partiti che l’hanno firmato sono la minoranza, le loro decisioni non sono legittime. Angela Merkel e i leader internazionali devono capire che le scelte di austerità sono state respinte».
A sinistra non è facile per Tsipras trovare sostegno. I comunisti di Aleka Papariga, che hanno raggiunto quasi il 9 per cento, gli hanno già detto di no. Fotis Kouvelis ha fondato Sinistra Democratica (attorno al 6 per cento) proprio dopo aver lasciato Syriza. Kouvelis esclude anche di entrare in una coalizione con Nuova Democrazia e Pasok: «I greci vogliono il cambiamento. Questi risultati mostrano la rabbia e la frustrazione degli elettori». Avvocato, da giovane recordman regionale nei tremila siepi, si trova nella posizione di poter decidere quale governo si riesca a formare o se possa resistere al potere per più di qualche mese.
In Parlamento dovrebbero arrivare sette partiti. Il centro si è frammentato, l’alternanza dinastica tra Nuova Democrazia e Pasok sembra destinata a finire. Nick Malkoutzis, vicedirettore dell’edizione in inglese del quotidiano Kathimerini, prevede via Twitter il ritorno alle urne in giugno.
Davide Frattini

CORRIERE DELLA SERA - GRECIA
D.F.
DAL NOSTRO INVIATO
ATENE — La maglietta dice «Pit Bull», lo sguardo assicura «azzanno». Ilias Panagiotaros ha i muscoli dilatati quasi quanto le pupille. Abbaia minacce contro gli immigrati illegali, gonfia i numeri («sono tre milioni», le statistiche ufficiali calcolano uno) non ce ne sarebbe bisogno: il suo partito è riuscito a imporre la questione degli stranieri a tutti gli altri. L’ex ministro della Sanità (socialista) ha chiesto che vengano sottoposti a test sanitari — «per evitare una bomba a orologeria igienica» — e il suo capo Evangelos Venizelos ha promesso «di ripulire le periferie».
A loro il populismo non è bastato, ad Alba d’oro sì. La formazione che si ispira agli «eroi» della giunta militare entra per la prima volta nel parlamento greco. Secondo le proiezioni, ha raccolto quasi il 7 per cento dei voti, tre anni fa si era fermata allo 0,23. Ha tolto elettori alla destra tradizionale e agli ultranazionalisti di Laos che rischiano di non superare la soglia del 3 per cento.
Non vogliono sentirsi chiamare neonazisti, eppure sventolano le bandiere nere con disegnato il simbolo del meandro in oro, che richiama la Grecia classica e ricorda una svastica. Quando il leader Nikolas Mihaloliakos ha conquistato un posto al consiglio comunale di Atene nel 2010, si è presentato alla prima assemblea con il saluto a braccio teso. I militanti organizzano ronde notturne nelle zone più degradate delle città. Accompagnano gli anziani ai bancomat per protezione, distribuiscono piatti caldi e vestiti. Chiedono la carta d’identità, chi non è greco viene bastonato.
Panagiotaros, portavoce del partito, sta seduto tra le mimetiche e le decorazioni militari che vende nel suo negozio a Kolonòs, uno dei quartieri di Atene che la crisi ha trasformato in ghetti per gli immigrati. Alle pareti le foto di Giorgios Papadopoulos, che nel 1967 guidò il colpo di Stato dei colonnelli. «Erano greci orgogliosi di essere greci. Proprio come noi» commenta.
Il conservatore Antonis Samaras, che per primo tenterà di formare un governo, aveva avvertito in campagna elettorale che «il passo dell’oca non deve rimbombare in Parlamento». Quando settant’anni fa i nazisti sventolarono la svastica sull’Acropoli, il nonno scrittore si uccise come gesto di protesta. Adesso Samaras dovrà convivere con le proposte della ventina di deputati di Alba d’oro, che Panagiotaros elenca come un bollettino di guerra: «Vogliamo l’espulsione di tutti gli immigrati illegali, anche di quelli con i documenti che tanto hanno ottenuto pagando mazzette. Le frontiere devono essere minate e la Grecia deve uscire dal trattato di Schengen. Le organizzazioni non governative straniere vanno cacciate». E il memorandum firmato con la troika? «E’ da stracciare».
D. F.

CORRIERE DELLA SERA - ELEZIONI TEDESCHE
PAOLO LEPRI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO La Cdu di Angela Merkel mantiene quasi inalterata la sua forza nello Schleswig-Holstein, ma la coalizione con i liberali che ha governato fino a ieri il piccolo Land nel Nord della Germania dovrà passare la mano. Tutto questo, nonostante il fatto che la Fdp sia riuscita a fermare la sua crisi e a ritornare, pur con forti perdite, nel Parlamento di Kiel. La Spd guadagna consensi ma non sfonda. E i tedeschi hanno già trovato una formula «colorata» per definire la più probabile alleanza che uscirà da questo voto: un «semaforo danese», dove al rosso dei socialdemocratici e ai Verdi si potrebbe unire il blu del partito della minoranza linguistica di questa piccola regione che si estende, tra il mare del Nord e il Baltico, fino al confine della Danimarca. Altrimenti, non si può escludere una grande coalizione tra i due maggiori partiti. I pirati confermano di essere la grande novità della politica tedesca, balzando all’8,2 per cento. La Linke sparisce.
Quello dello Schleswig-Holstein è stato quindi un test che ha dato segnali significativi ma non un terremoto. Non è un caso che a dirsi «deluso» sia stato proprio il candidato governatore della Spd, Torsten Albig, anche se i socialdemocratici hanno guadagnato quasi cinque punti rispetto alle elezioni precedenti, passando dal 25,4 per cento del 2009 al 30,3 di ieri. Più soddisfatta, a Berlino, Andrea Nahles, segretario della Spd, che ha molto insistito (come del resto la verde Claudia Roth) sulla mancata riconferma della coalizione tra i cristiano-democratici e i liberali. «Ci sono due partiti che hanno perso» è stato anche il commento del presidente socialdemocratico, Sigmar Gabriel. In realtà, però, Albig sperava in un successo più netto e in una maggioranza con i Verdi (saliti dal 12,4 per cento al 13,2) che invece non ha sufficienti seggi per governare. I risultati sono stati accolti quasi come una vittoria, invece, dal «numero uno» della Cdu (che scende dal 31,5 per cento al 30,9) Jost de Jager, già responsabile dell’economia di un Land che ha 28 milioni di euro di debito. Il candidato governatore cristiano-democratico aveva sostituito otto mesi fa il collega di partito Christian von Boetticher, travolto dalla notizia della sua relazione con una minorenne conosciuta su Facebook.
Nelle analisi del voto, sono molti i commentatori a mettere in rilievo l’inversione di tendenza del partito liberale, anche grazie alla aggressiva campagna elettorale del suo uomo forte nello Schleswig-Holstein, Wolfgang Kubicki, distintosi in passato per alcune critiche alla linea della cancelliera sulla crisi europea. Ma, al di là di questo, se verrà confermata dal voto di domenica prossima nella Nord Renania-Vestfalia, il più popoloso Land tedesco, (dove è sceso in campo quello che forse sarà il futuro leader del partito, Christian Lindner) la «resistenza» della Fdp può comunque rendere meno instabile, almeno per il momento, la coalizione guidata da Angela Merkel.
Paolo Lepri

ELEZIONI IN ITALIA
DINO MARTIRANO
ROMA — La temuta scivolata verso l’abisso dell’astensionismo di massa non c’è stata, per ora. Ma il calo dei votanti per quasi sei punti percentuali è lo stesso preoccupante. L’affluenza alle urne per le comunali 2012 — le prime elezioni dell’era Monti — è in netta flessione un po’ in tutta Italia (-5,87% in media, esclusa la Sicilia, nella prima giornata della consultazione) ma i conti definitivi sulla disaffezione degli elettori si potranno fare solo oggi alle 15, quando chiuderanno i seggi nei 941 comuni (26 sono capoluoghi) in cui si rinnova consiglio, giunta e sindaco.
Gli aventi diritto sono 9 milioni 231 mila ma, con questo andamento, potrebbero mancare all’appello tanti cittadini delusi rimasti a casa. L’astensionismo è stato più forte al centro nord (Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia, Toscana, Umbria, Lazio) e in parte ha risparmiato le regioni meridionali. Flessione anche in Abruzzo dove gli aquilani hanno fatto registrare un 3,7% in meno rispetto alle elezioni celebrate prima del terremoto.
A partire da oggi pomeriggio (i seggi aprono alle 7 e chiudono alle 15) gli occhi saranno puntati su Genova (affluenza in calo dell’4,53%), Verona (-6,32%) e Palermo (-6,3%). Nel capoluogo ligure, il Pd e gli alleati del centrosinistra sperano nella spallata di Marco Doria al primo turno e lo stesso auspica la Lega che nella città scaligera schiera il sindaco uscente Flavio Tosi. Mentre a Palermo, dove il Pd appoggia Fabrizio Ferrandelli, l’ex sindaco Leoluca Orlando (Idv) ha buone chance di passare al secondo turno superando il candidato del Pdl. In totale, su 26 capoluoghi in cui si rinnova il sindaco, il centrodestra con la Lega ne amministrava 18 municipi e 8 erano del centro sinistra: il Pd, oltre a quello di Genova, spera nel colpaccio al primo turno anche all’Aquila mentre il sogno proibito di Bersani è riconquistare Parma (-7%) dopo un dominio del Pdl lungo 14 anni.
Il Pdl — che ovunque, tranne che a Gorizia, corre senza la Lega — ha fissato la sua linea difensiva nelle roccaforti di Asti, Gorizia, Lecce (qui l’Udc ha schierato un ex tronista di «Uomini e donne»), Trani, Isernia, Catanzaro (grazie anche all’appoggio dell’Api di Rutelli che sostiene Sergio Abramo), Trapani e Como. Ma nel partito di via dell’Umiltà c’è agitazione a causa del vento francese innescato dalla vittoria del socialista François Hollande. Silvio Berlusconi, che resterà a Mosca dall’amico Putin fino a domani, venerdì avrebbe radunato ad Arcore una parte della vecchia guardia di Forza Italia, quella della discesa in campo del ’94, per illustrare ai fedelissimi le sue preoccupazioni: con un socialista all’Eliseo, è la sintesi del ragionamento del Cavaliere, bisogna superare subito la formula del Pdl perché la sinistra «ci porterà al voto già a ottobre e noi dobbiamo essere pronti».
Domani, a urne chiuse, sarà comunque difficile decodificare il voto di lista. Nelle regioni del Nord in cui Lega e Pdl non vanno più a braccetto il tasso di astensionismo è molto alto: Piemonte (-4,8%), Lombardia (-6,85%), Veneto (-6,25%). Invece in Emilia, dove è forte l’elettorato del Pd, il calo dei votanti sale all’8,53%. Lo stesso accade in Toscana (-9,83%) e in Umbria (-9,05 %). Si salvano in parte le Marche (-6,57%) e il Lazio (-7%). A Monza capoluogo si registra il dato forse più negativo: -12,38%. Mentre a Sesto San Giovanni l’emorragia si è fermata al 7,63%.
Per leggere il voto di coalizione, tuttavia, bisognerà vedere se il Pd andrà meglio dove ha imposto i suoi candidati o dove ha perso le primarie. E sarà interessante verificare la prova offerta dall’Udc: che si schiera con il centro sinistra a La Spezia, Taranto e Trani mentre è alleato del Pdl a Palermo, Verona, Isernia. E, ovviamente, c’è attesa per le liste 5 Stelle di Beppe Grillo che partono da 150 consiglieri uscenti e ora chissà dove possono arrivare grazie al vento in poppa dell’antipolitica in particolare ad Alessandria (qui i votanti sono il l’8,72% in meno), a Verona e a Parma. Resta infine da decodificare il voto assegnato alle liste civiche: sono 2.742 in tutta Italia.
Dino Martirano

LA REPUBBLICA - IL VOTO A GENOVA
GENOVA - Larga 82 centimetri e alta 32: è la scheda elettorale "lenzuolo" che si sono trovati i genovesi alle urne per scegliere il nuovo sindaco. Con tredici aspiranti sindaci e venticinque liste, la scheda si è allargata fino alle dimensioni record. «Sia anziani che giovani che età di mezzo hanno difficoltà a chiudere le schede perché poi la cabina è quello che è. E poi si preoccupano di chiuderle bene come le hanno trovate. In realtà poi non c´è tutto questo problema» ha detto Alessia Giraldi, presidente del seggio 360 presso il liceo Cassini a Repubblica.it. Peraltro le schede sono due - una azzurra per il sindaco e il consiglio comunale, l´altra, rosa, per i municipi e hanno dimensioni diverse, con la prima più grande dell´altra.

LA STAMPA - IL VOTO IN SARDEGNA
Dieci quesiti contro la casta. E i sardi non si sono fatti sfuggire l’occasione per cambiare la Regione, cancellare quattro province e ridurre i privilegi dei consiglieri regionali. Un milione e quattrocentomila persone ieri avevano appuntamento con il referendum e alle urne si sono presentati in cinquecentomila. Il quorum del 33,3 per cento è stato superato di poco: 35,5 per cento il dato finale divulgato poco prima di mezzanotte.

Il numero delle province in Sardegna è raddoppiato nel 2001. Alle storiche di Cagliari, Sassari, Nuoro e Oristano si sono aggiunti nel 2005 (quando è diventata operativa la legge regionale approvata quattro anni prima) gli altri quattro enti.
Con presidente, giunta, consiglio, commissioni e persino doppio capoluogo. La Gallura con un totale di 157.859 residenti. L’Ogliastra è la provincia più piccola: 57.965 abitanti. Le altre due nuove nate sono il SulcisIglesiente (Carbonia-Iglesias) e il Medio Campidano (VillacidroSanluri): 102 mila residenti la prima 129 la seconda.
A parte l’abrogazione delle quattro nuove province, ieri i sardi si sono espressi anche sulla cancellazione di quelle storiche. Ma in questo caso il referendum era semplicemente consultivo. Proprio come nel caso del quesito legato alla riscrittura dello Statuto autonomo della Regione e l’elezione di un’Assemblea costituente. Referendum consultivi anche quello sull’elezione diretta (attraverso le primarie) del presidente della Giunta regionale, sull’abolizione dei consigli di amministrazione degli enti regionali e sulla riduzione dei consiglieri regionali. Al momento gli onorevoli sardi (con indennità pari a quella dei parlamentari) sono ottanta, ma la proposta dei referendari è quella di ridurre le poltrone e lasciarne in aula soltanto cinquanta. L’altro quesito, ma in questo caso abrogativo, rappresentava uno dei punti importanti della campagna referendario: l’abolizione dell’ottanta per cento delle indennità dei consiglieri regionali.
A invitare tutti i sardi a presentarsi alle urne era stato il governatore Ugo Cappellacci, mentre l’Unione della province sarde ha tentato fino a venerdì di bloccare i referendum.
«Le istituzioni e i protagonisti della politica devono sintetizzarsi con la gente, che da mesi manifesta disagio nei confronti della classe politica – ha detto il presidente della Regione – Non possiamo tollerare che sacche di malgoverno e spreco possano ancora annidarsi all’interno del “sistemaSardegna”».