Paolo Valentino, Corriere della Sera 6/5/2012, 6 maggio 2012
DAL NOSTRO INVIATO
MOSCA — Cosa mette in rapporto fra di loro le odierne elezioni in Grecia, la sanguinosa repressione siriana, un monaco furfante del Monte Athos e la reincoronazione di Vladimir Putin, che domani torna da zar al Cremlino? In che modo eventi così slegati in apparenza si ricompongono in uno scenario geostrategico, forse non realistico a breve termine, ma che sarebbe stolto liquidare come improbabile ossessione da complotto?
Per i cittadini greci che oggi vanno alle urne, l’Europa e le sue dolorose ricette per l’austerità sono sul banco degli imputati. I sondaggi assegnano percentuali superiori al 10% ai Greci indipendenti, il partito di Panos Kammenos, l’ex deputato di Nuova democrazia che si oppone ai tagli imposti dall’Ue e proclama urbi et orbi un’incondizionata ammirazione per la Russia e il suo nuovo/vecchio zar. Teorizza anche che il prossimo megaprestito, di cui avrà sicuramente bisogno, Atene dovrebbe chiederlo proprio a Mosca. Intanto Giorgios Karatzaferis, leader dell’estrema destra del Laos, ha fatto campagna vantando che Putin gli ha scritto una lettera.
Facciamo un passo indietro. È da qualche anno che la penisola ellenica è oggetto di forte attenzione da parte del Grande fratello ortodosso. Non sono solo o tanto i massicci investimenti immobiliari dei nuovi ricchi russi in zone balneari, come il distretto settentrionale di Haldikhi. Né il flusso crescente di turisti che dalla Federazione si muove ogni anno verso coste e isole greche: quest’anno saranno 1 milione, il doppio che nel 2010.
Più interessanti e non disinteressati sono i generosi finanziamenti che il governo e la Chiesa ortodossa russa assicurano a settori della comunità religiosa greca, considerati vicini alla Chiesa di Mosca, in opposizione al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Romfea, sito Internet di notizie ecclesiastiche, è uno dei beneficiari.
Ma il riferimento privilegiato è Hegumen Ephraim, abate del monastero di Vatopedi, considerato l’aristocrazia di Monte Athos. Sfruttando i privilegi accordati ai monaci della montagna sacra, Ephraim ha tessuto una vasta rete di contatti al crocevia tra politica e affari, media per conto di società russe, va e viene da Mosca dove viene ricevuto ai più alti livelli, da Putin al Patriarca Kirill. Sarebbe meglio dire andava e veniva dalla capitale russa, visto che dal dicembre scorso il religioso è in carcere in Grecia, accusato di truffa ai danni dello Stato in una compravendita di terreni. Il suo arresto avvenne proprio al ritorno da una puntata moscovita e provocò reazioni furibonde da parte del patriarcato del Cremlino: «Un atto ostile contro i monaci del Monte Athos e l’intera Chiesa ortodossa», disse all’epoca il metropolita Hilarion, ministro degli Esteri di Kirill. Secondo Sergei Rudov, capo della Fondazione degli Amici del monastero di Vatopedi, «ci sono due ragioni per l’arresto di Ephraim: la prima è che sotto la pressione dell’Unione Europea la Grecia vuole ridurre l’autonomia del Monte Athos; la seconda è la crescente influenza dell’ortodossia russa sulla montagna sacra, mal vista dal Patriarcato di Costantinopoli».
Ma passando dal soft power a cose più tangibili e sostanziose, ecco entrare sulla scena la crisi siriana. È evidente che l’incerta situazione a Damasco sia fonte di grave preoccupazione strategica per Mosca. Tra le molteplici ragioni, un posto centrale occupa l’uso delle due basi navali di Latakia e Tartus che il Cremlino teme di perdere, nel caso di una cacciata di Assad e dell’insediamento di un nuovo regime. Vi ha speso molto il governo russo in questi anni, trasformando Latakia in un moderno porto per sottomarini nucleari e iniziando ad ampliare Tartus, per ospitarvi un giorno i suoi incrociatori lanciamissili. Ed è proprio al Pireo, secondo buone fonti moscovite, che la Russia starebbe pensando, nel caso gli eventi la costringessero a cercare un altro appoggio per la sua flotta nel mediterraneo.
Fantapolitica? Probabilmente, nella Grecia di oggi, governata da forze filoeuropee e filoatlantiche. Ma come reagirebbe all’offerta un Paese disperatamente bisognoso di fonti di reddito, impoverito e gonfio di risentimento verso l’Europa e gli alleati tradizionali, fagocitato da forze populiste? «Un accordo di 30 o 50 anni, che dia alla marina russa diritti di attracco e stazionamento, potrebbe un giorno aver senso per entrambi e portare nelle casse greche fino a 200 miliardi di dollari», ha spiegato sul Financial Times Ian Bremmer, capo del gruppo di consulenza Eurasia.
D’altronde, se le servitù militari della Grecia sono (ancora) off limits, l’offensiva dei russi su altri fronti economici qualche progresso lo sta già facendo. Nel grande bazar delle privatizzazioni, imposte da Bruxelles e dal Fmi nel quadro dell’accordo per il salvataggio finanziario del Paese, è infatti l’onnipotente Gazprom a trovarsi in prima fila per l’acquisto di Depa, la compagnia del gas greca. Mentre una delle sue sussidiarie, Gazprom Neft, è sul punto di rilevare il 35,5% di Hellenic Petroleum, una delle più grandi compagnie di raffinazione. Se Gazprom, come sembra il caso, riuscisse nel suo intento, ogni sforzo europeo di usare il territorio greco come alternativa al South Stream, il gasdotto russo che passando dal Mar Nero porterà il metano verso l’Europa centrale e meridionale, sarebbe definitivamente vanificato.
Non suonano allora semplici grida dalla tundra, esplosioni del machismo putiniano, le feroci critiche di Vladimir Vladimirovich, che ancora in febbraio ha accusato l’Unione Europea di «aver privato la Grecia dell’arma della svalutazione e della possibilità di ristrutturare la sua economia», definendo l’euro «un peso al piede dei greci». «Il resto d’Europa prenda nota — avverte Bremmer — la Grecia oggi sembra priva di opzioni a parte quella europea, ma nel tempo potrebbe averne più di quante pensiamo».
Paolo Valentino