Massimo Nava, Corriere della Sera 6/5/2012, 6 maggio 2012
L’impossibile non è francese. Forse, nell’ultima notte prima del verdetto, Sarkozy avrà pensato a una frase celebre di Napoleone, accarezzando il mito della vittoria insperata, quindi tanto più storica e gloriosa
L’impossibile non è francese. Forse, nell’ultima notte prima del verdetto, Sarkozy avrà pensato a una frase celebre di Napoleone, accarezzando il mito della vittoria insperata, quindi tanto più storica e gloriosa. Da più di un anno i sondaggi prevedono Waterloo, ma quelli delle ultime ore una sconfitta di stretta misura. Qualche mese fa, Sarkozy confessava fragili speranze e propositi di abbandono della politica: «Sulla carta, le elezioni sono perse, ma la crisi è drammatica, può essere che s’insinui nella gente l’idea di affidarsi a chi ha più esperienza di governo». Mentre i socialisti fanno preparativi per la festa alla Bastiglia, i generali gollisti già cominciano la battaglia fratricida per la successione, pensando al 2017. Un altro brutto segno. E siccome la sconfitta è orfana, Sarkozy non si è mai sentito così solo. Solo con errori di cinque anni e maldestre correzioni degli ultimi mesi. Solo con complicati calcoli sul voto di sette milioni d’indecisi, dell’estrema destra, di quanti francesi nel segreto dell’urna potrebbero preferire la continuità indigesta alle incognite del cambiamento, l’energia o la simpatia, il realismo o la speranza. Solo. Ma con una qualità che tutti gli riconoscono fin da quando faceva a pugni o gareggiava con i compagni di scuola: il carattere irriducibile di uno che non si dà mai per vinto, anche se gli avversari sono all’evidenza più avanti e più forti. «Il giorno in cui non abbiamo più voglia di batterci vuol dire che siamo vicini al riposo finale». La rimonta, negli ultimi mesi è stata costante, grazie alla spregiudicata seduzione degli elettori del Fronte nazionale e all’attacco frontale al programma di Hollande, «candidato delle tasse e della spesa pubblica fuori controllo». Se sarà sconfitta, sarà onorevole, con percentuali insperate all’inizio della corsa. «Si giocherà sul filo del rasoio», ha detto Sarkozy nell’ultimo intervento e anche lo sfidante sembra temerlo, per quanto anche le cancellerie si stiano preparando all’alternanza socialista. L’annunciato voto del centrista Bayrou per Hollande potrebbe creare l’effetto contrario, poiché la sua base moderata non condivide la scelta di campo. E poi, chissà, la fortuna, il destino, la giornata piovosa, la Vandea contro la Rivoluzione. Tutto conta in queste ore, compresa l’illusione che i sondaggi abbiano preso un clamoroso abbaglio, praticamente per trecento volte di fila dal novembre scorso. Comunque vada, resta sorprendente la parabola discendente di un leader che aveva entusiasmato il Paese e fatto scoprire all’Europa un’altra idea di destra e di Francia. Il leader che voleva riformare e modernizzare senza dividere, lascia alcune riforme importanti (pensioni, università) ma un Paese lacerato, che infatti partecipa oggi a un referendum sulla sua persona. Il presidente dell’apertura alla gauche e alla diversità sociale ed etnica, della discriminazione positiva all’americana, della ricompensa al merito individuale, rischia di regalare interamente alla sinistra un Paese che resta per mentalità conservatore e che non ha creduto a chi predicava: «Il modello sociale che funziona è quello che dà lavoro, non quello che generalizza sussidi». Dunque, per la maggioranza dei francesi con posto fisso e impiego pubblico, meglio salvare il modello esistente, meglio la rivoluzione conservatrice e protettiva di Hollande. L’uomo che voleva costruire una Francia più aperta al mondo e più europea ha finito per inseguire Marine Le Pen sulla necessità di barriere fisiche o immaginarie contro la fuga d’industrie e l’ingresso di stranieri. L’ultimo erede del gollismo è stato accostato a Petain. Un insulto per chi ha lontane origini straniere ed ebraiche, che però dà la misura del rigetto e del rovesciamento di giudizi, rispetto al tempo in cui attirava anche la sinistra intellettuale. Ma al di là dei bilanci, occorre ricordare che il consenso cominciò a crollare già pochi mesi dopo le elezioni. I francesi hanno giudicato la persona prima dell’azione, i tic e le caricature prima della capacità d’interpretare la parte, i weekend sulle barche dei finanzieri prima dei progetti di legge, la deriva bonapartista prima dei concreti propositi di limitare i suoi stessi poteri. E il successo mediatico si è rovesciato in disfatta. La democrazia emotiva dell’effetto annuncio lo ha tradito. L’opinione pubblica non gli ha perdonato nulla dalla sera dei festeggiamenti al lussuoso hotel Fouquet’s, dopo il trionfo. L’etichetta di «presidente dei ricchi» gli è rimasta incollata, con pettegolezzi, vicissitudini matrimoniali, capricci della corte, agitazione scambiata per dinamismo, dissacrazione di un ruolo che i francesi considerano appunto sacro. La sua onnipresenza, dalle platee internazionali alle fiere di paese, è stata una prova di generosità e energia, che lo ha esposto oltremisura, con il paradosso che il primo ministro — intercambiabile parafulmine di tutti i presidenti — ha tenuto il basso profilo ed è diventato più popolare. Il presidente può essere di destra o di sinistra, ma nell’immaginario dei francesi deve apparire padre e monarca. Hollande è vincente anche perché si atteggia a Mitterrand. Sarkozy è stato piuttosto capopopolo e capoclan, con una nota di provincialismo esterofilo e filo-americano che non piace ai francesi. Ha presto sostituito jeans e Rayban con tristi cravatte nere, ma era già tardi. Arroganza e impulsività lo hanno indebolito, dilapidando simpatie e consenso, persino fra fedelissimi, spesso maltrattati e inascoltati. Si sussurra di qualche gollista doc che si augura la sconfitta: «Se ce la facesse, Sarko non avrebbe più limiti». Meglio chiudere la sua parentesi e prepararsi alla rivincita. mnava@corriere.it