Andrea Malaguti, La Stampa 6/5/2012, 6 maggio 2012
Perché la festa di Sua Maestà fosse indimenticabile, Simon Brooks Ward, un uomo pallido con i capelli rossi e eccessivi occhiali neri da Clark Kent, ha convocato al castello di Windsor cavalli e cavalieri di ogni angolo della Terra
Perché la festa di Sua Maestà fosse indimenticabile, Simon Brooks Ward, un uomo pallido con i capelli rossi e eccessivi occhiali neri da Clark Kent, ha convocato al castello di Windsor cavalli e cavalieri di ogni angolo della Terra. Arriveranno il 10 di maggio, giornata d’apertura del Giubileo della Regina Elisabetta II, sovrana del Regno Unito dal lontano 6 febbraio del 1952. Incaricato di organizzare le celebrazioni, Brooks Ward - figlio di un presentatore della Bbc, abituato fin da bambino a frequentare palazzi reali e studi televisivi - ha fatto le cose in grande, inventandosi un personale giro del mondo in ottanta giorni che ha fatto tappa in Australia, Nuova Zelanda, Nord America, Dubai, India, Africa e Azerbaijan. Dopo avere incontrato emiri e maharajah, principesse, eschimesi e danzatrici del ventre, nomadi e militari dal whisky facile è rientrato in patria con una lista di mille e duecento ospiti di diciotto diverse nazioni. E soprattutto con la certezza di fare sfilare cinquecentocinquanta tra i più preziosi purosangue del pianeta. «Gli amici mi hanno ribattezzato “garretto”, adoro questi animali. La Regina lo sa». La prima fotografia di Sua Maestà che gioca con un puledro risale al 1932. Un regalo del padre, Giorgio V. Non ha più lasciato la sella. E ancora oggi, a 86 anni compiuti, quando gli impegni e la condizione fisica glielo consentono, cavalca senza indossare l’elmetto. Un vezzo. Che ha spinto Simon De Bruxelles a scrivere di lei: «L’amore eterno di Elisabetta per i cavalli può essere paragonato soltanto a quello che prova per i suoi sudditi. E forse lo supera. Naturalmente, se anche fosse, lei non lo direbbe mai». Simon Brooks Ward, in ogni caso, sapeva dove andare a cercare. Uomini, cavalli e storie da fiabe. Genti antiche e lontane e fedeli alleati del Regno. Il primo volo l’ha portato in Canada, dove ha incontrato il popolo gli Inuit. «Uomini e donne capaci di far suonare l’ugola. Di produrre armonie fuori dal tempo. Una ragazza mi ha abbracciato e mi ha detto: ringrazi la Regina. Ci è venuta a trovare dieci anni fa: un momento indimenticabile». Lui ha fatto di più. Ha guardato i suoi occhi freddi e luminosi e le ha detto: «Vi porto con me al Castello di Windsor, dal 10 al 13 maggio vi esibirete per lei». Non sono fatte così le favole? Il secondo volo l’ha portato nel Pacifico. È passato dalle Isole Cook, dove le ragazze sembrano figlie di Gran Visir, splendide di perfezione e grazie sublimi da Sharazade. Non danzano, incantano, svitandosi in modo innaturale, consentendo alla parte inferiore del corpo di muoversi in direzione opposta alla parte superiore. «Ho provato anch’io. È stato imbarazzante». E anche loro saranno presenti al castello. «Il giorno dopo mi sono messo in contatto con la cavalleria reale dell’Oman». Ottocento cavalli, cinquecento cammelli e costumi di porpora e d’oro. «Vederli in sella fa venire la pelle d’oca». Invitati. Il Maharajah di Jodhpur gli ha offerto ambrosia, le guardie del corpo del presidente indiano vino rosso molto corposo. «A Nairobi ho trovato il Chamber Chorus e in Uganda ho scritturato i bambini Watoto». Ma era di cavalli che gli era rimasta la voglia. Così è andato a trovare la tribù Lakota, del grande gruppo dei Sioux, e infine ha preso un volo per l’Azerbaijan. «Volevo a tutti i costi cavalli Karabakh. Sua Maestà li conosce bene». Nel 1956 l’Unione Sovietica gliene regalò uno in segno di ammirazione. «I discendenti di quel purosangue di derivazione orientale riempiono ancora le stalle reali». A quel punto il gioco era fatto. È salito sul ventunesimo aereo in un mese e mezzo e quando ne è sceso ha sentito addosso una stanchezza terribile, come se l’avessero picchiato. Ma forse non era mai stato così felice. «Ho pensato al vino e alle ragazze azere. A una in particolare, che cavalcava come un fata. Dio solo sa come facesse». Avrebbe voluto chiederglielo. Da buon inglese non l’ha fatto. A volte gli esseri umani hanno pudori sciocchi. Ma gli è rimasto il tarlo.